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Revenge porn: breve storia di un reato

Si chiude così la settimana del 25 novembre, dedicata all’eliminazione della violenza di genere, alle donne, a storie di donne, a storie di vita spesso distrutte da superficialità e violenza ingiustificata. Nella nostra consueta puntata radio del lunedì in collaborazione con RadioUnint – e grazie all’importante contributo della speaker Jessica che ha approfondito e affrontato queste tematiche nella sua tesi di laurea – abbiamo discusso della violenza di genere e del sostrato culturale, dell’impatto e sociale e degli ordinamenti giuridici connessi a un reato sempre più diffuso: il revenge porn.

Fin dall’antichità, il fenomeno della violenza sulle donne si è manifestato in diverse forme ed intensità, tanto da scuotere l’attenzione e la coscienza di molti. Si tratta, infatti, di un problema sociale universalmente condiviso in quanto “colpisce” donne di qualsiasi ordine, classe ed età. La nota distintiva di tale criticità sta nel fatto che si tratta di una forma di violenza basata sul genere. Le donne vengono umiliate, maltrattate, perseguitate ed uccise in quanto donne. Alla base vi è una cultura maschilista e discriminante che trova le fondamenta nella disparità tra uomo e donna, nel considerare il sesso femminile come inferiore e, perciò, da subordinare. L’approccio di genere, quindi, ci consente di divenire soggetti consapevoli di tale realtà e, soprattutto, di attivarci concretamente per cambiarla. È importante sottolineare che l’inclusione del concetto di genere nelle definizioni internazionali di violenza è frutto di un percorso storico e rappresenta un’importante acquisizione la cui espressione culminante è rappresentata dalla Convenzione di Istanbul, un documento che stabilisce degli standard internazionali per la prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne.

Nello specifico una vicenda che ha avuto tristemente risonanza nelle ultime settimane arriva dalla provincia di Torino ed è una lunga storia di tradimenti, vendetta e superficialità; è in atto un processo che indaga cinque persone che rispondono di violenza, divulgazione di materiale privato e diffamazione.

È il 2018 quando una ragazza conosce un calciatore dilettante del paese e gli invia immagini erotiche ed un video. Si tratta di una maestra il cui nome, sul telefono dell’ex e degli amici di calcetto con cui lui ha condiviso il materiale privato, rimane legato all’immagine e il video. La moglie di uno dei calciatori a cui il materiale arriva riconosce nella donna la maestra d’asilo del proprio figlio, arrivando a minacciarla e gridando alla scandalo. La maestra non si lascia intimorire, presenta querela e si aspetta comprensione dalla preside scolastica che invece la convince a rassegnare le dimissioni.

Il punto di partenza della vicenda è che nel sesso, libero e consensuale, non c’è vergogna; vergogna che invece dovrebbe provare chi viola il diritto privato, tenendo a mente l’esito tragico delle vicende di Tiziana Cantone. È piuttosto necessario decostruire una serie di stereotipi introiettati nel corso del tempo che vengono percepiti come normalità; bisognerebbe partire dalle scuole e dall’educazione per arrivare a una sana concezione della sessualità nel rispetto delle libertà individuali. Il sesso assume ad oggi – purtroppo – una valenza sociale negativa ancorata all’idea di peccato, di vizio e di indecenza fino al punto che la maestra è stata considerata inadatta a ricoprire un ruolo di educatrice istituzionale.

Per “revenge porn”, infatti, si intende un’azione esercitata mediante la diffusione di immagini o video che ritraggono la vittima in atteggiamenti intimi. Le conseguenze di tale fenomeno sono disastrose per la donna, la quale viene offesa e privata della propria privacy. Il fine di simili condotte è quello di denigrare e screditare l’identità della donna in quanto tale, umiliandola difronte ad un numero non quantificabile di persone. La pericolosità di tale fenomeno, pertanto, è data dalla indefinita quantità di soggetti che può raggiungere. Questo è uno degli aspetti che più preoccupa le vittime, in quanto una foto o un video, soprattutto se diventa virale, può scatenare una “gogna mediatica” dalla quale è davvero complicato trovare uno spiraglio di luce. Ad oggi, diverse sono le notizie di cronaca che riportano episodi di simili violenze e in casi non troppo isolati, purtroppo, la vittima vede nel suicidio l’unico modo per uscire da una realtà fatta di insulti, minacce e denigrazioni. È bene tenere a mente, quindi, che la rete non dimentica; tutto il materiale intimo o privato che viene pubblicato e fatto circolare su internet, infatti, è molto difficile da eliminare in modo permanente e può avere ripercussioni devastanti e irreversibili per la vita dei soggetti colpiti.

Il revenge porn è a tutti gli effetti un reato, sebbene sia affrontato spesso con superficialità dagli stessi utenti social; basti pensare ad uno degli amici del calcetto nella vicenda di Torino che ha definito l’azione di diffusione del materiale erotico come “una goliardata da uomo”. L’ordinamento italiano, in realtà, mette a disposizione e disciplina, all’interno di diversi testi legislativi tra cui il Codice penale, il codice di procedura penale, il Codice civile e alcune leggi speciali, molteplici strumenti atti a reprimere una serie di reati ascrivibili al fenomeno della violenza maschile contro le donne. In tempi più recenti l’ordinamento italiano ha approvato la legge n. 69 del 19 luglio 2019 che prevede numerose modifiche alle normative riguardanti la tutela delle vittime di violenza domestica e di genere. Entrata in vigore nell’agosto 2019, tale legge, meglio conosciuta con l’espressione “Codice Rosso”, si compone di 21 articoli e presenta alcune novità importanti. Tra queste, viene introdotto l’articolo 387-bis del Codice penale in materia di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa; viene poi riconosciuto come reato, mediante l’inserimento dell’articolo 612-ter del Codice penale, il fenomeno della revenge porn.

Parlarne, legiferare in merito e discuterne è quindi indispensabile per sdoganare determinati tabù perpetuati del tempo, nella protezione e tutela di tutti i diritti indisponibili del singolo. L’obiettivo, pertanto, rimane quello di eliminare ogni forma di prevaricazione contro le donne e di fondare una realtà dove le stesse possano riconoscersi come persone e non come oggetti da subordinare.

Jessica Sebastiani ed Evelyn De Luca

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Abitare gli spazi: l’ascesa al Campidoglio di una giovane donna somala

Rimanere isolati non è più possibile, cerchiamo di adattarci e ricostruire il nostro percorso. Condividendo, gran parte del dolore si compartisce. Una madre sola non basta ai propri figli, chi lo può sapere meglio di me e Domenica Axad?

Recita così un passo di “Madre Piccola” (2007) di Cristina Ubax Ali Farah, autrice italo-somala nata e cresciuta in Italia; una storia di migrazioni, di grovigli identitari e continue lacerazioni nella vita dei suoi personaggi, lontani dalla madrepatria somala ormai in guerra.

Nelle modalità di relazionarsi ai luoghi è presente in maniera inevitabile l’eredità della storia coloniale. La storia dei personaggi Domenica, Barni e Taageere rappresenta così l’occasione ideale per ripercorre le vicende somale e quella italiane.

Rispetto ai personaggi maschili – uomini che appaiono incompleti, in continua peregrinazione e ricerca – i personaggi femminili del romanzo sembrano adeguarsi in maniera migliore ad una nuova condizione e al nuovo spazio; Barni infatti riesce, seppur con fatica, a costruirsi un equilibrio nella sua vita a Roma grazie all’ingresso nel mondo lavorativo e al tipo di professione che pratica mentre Domenica, dopo circa un decennio di peregrinazione, decide infine di ricongiungersi con la cugina durante la gravidanza, approdando anch’essa a Roma. Il ritrovamento di un legame perduto, congiuntamente alla maternità e all’amore posto nella cura degli altri, consente alle donne del romanzo di appropriarsi gradualmente degli spazi che abitano e di riscoprire le proprie radici che sembravano ormai apparentemente perdute.

In questo processo l’Italia appare il luogo ideale per la costruzione di una nuova vita, di nuove abitudini e di spazi familiari in cui trovare riparo: abitare spazi differenti con uno stile di vita nomadico significa infatti per il personaggio non riuscire a creare un legame e di conseguenza «vivacchiare, vivere male» senza mai risolvere totalmente la propria questione identitaria né trovare uno spazio in cui insediarsi definitivamente.

L’Italia rappresenta, per i personaggi, «il luogo dove poter rimettere insieme tutti i pezzi. Poi me ne sarei potuta anche andare di nuovo, ma prima dovevo riaggiustare le cose che avevo lasciato in sospeso»; a testimoniare ciò è la volontà di partorire in Italia, essere accettata negli spazi e ricostruire i legami persi per porre fine alla condizione di migrazione. Ma anche in questo caso il processo di adeguamento risulta complesso e l’impatto con un luogo che preclude ai protagonisti l’ingresso non corrisponde alle aspettative originarie.

In merito a ciò, una scena del romanzo che risulta particolarmente significativa è quella in cui Barni cerca di arrivare in cima al Campidoglio in occasione del funerale di un gruppo di somali morti nel Mediterraneo mentre tentavano di lasciare il paese in guerra. La scena fa riferimento ad un evento realmente accaduto il 17 ottobre del 2003 e alla sua celebrazione in Piazza del Campidoglio; nel tentativo di ascesa al luogo, Barni si trova in difficoltà e le sembra di essere mossa da una forza centrifuga che la spinge verso la periferia. Il personaggio, infatti, avverte come inadeguata la commemorazione funebre in quel luogo, simbolicamente posto in posizione sopraelevata, così come avverte inadeguata la propria presenza; i somali celebrati infatti, secondo le sue riflessioni, se fossero in vita non si troverebbero al Campidoglio ma frequenterebbero altre zone romane, principalmente periferiche. L’Italia sperata e pensata come terra della propria rinascita è invece un’Italia – così come nell’esperienza di Gashan (https://blog.unint.eu/losapevateche-30-ottobre-2020/) – ancora lontana dal facilitare una piena integrazione, e che deve lavorare su sé stessa per consentire a tutti di vivere ad abitare in maniera soddisfacente i propri spazi.

Evelyn De Luca

FONTI:
Caterina, Romeo, Riscrivere la nazione: la letteratura italiana postcoloniale, Firenze, Le Monnier-Mondadori, 2018.

Ubax Cristina, Ali Farah, Madre Piccola, Frassinelli, Roma, 2007.

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Il Mausoleo di Affile: quando l’ideologia da reality è più importante della Storia

Caro Presidente Nicola Zingaretti, mi chiamo Igiaba Scego, sono una scrittrice, figlia di somali e nata in Italia. Sono una della cosiddetta seconda generazione. Una donna che si sente orgogliosamente somala, italiana, romana e mogadisciana. Le scrivo perchè l’11 agosto 2012 ad Affile, un piccolo comune in provincia di Roma, è stato inaugurato un “sacrario” militare al gerarca fascista Rodolfo Graziani. […] Rodolfo Graziani, come sa, fu tra i più feroci gerarchi che il fascismo abbia mai avuto. Si macchiò di crimini di guerra inenarrabili in Cirenaica ed Etiopia; basta ricordare la strage di diaconi di Debra Libanos e l’uso indiscriminato durante la guerra coloniale del ’36 di gas proibiti dalle convenzioni internazionali. […] La Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra lo collocò naturalmente al primo posto. Il monumento a Rodolfo Graziani è quindi un paradosso tragico, una macchia per la nostra democrazia, un’offesa per la nostra Costituzione nata dalla lotta antifascista.

Così scrisse Igiaba Scego, autrice italo-somala, in occasione dell’inaugurazione del Mausoleo di Affile nel 2012 dedicato a Rodolfo Graziani, gerarca fascista e ministro della Difesa nella Repubblica sociale italiana. Graziani fu tra gli esponenti politici del fascismo ad essere maggiormente coinvolto nella storia coloniale italiana sia nella fase di riconquista libica tra il 1921 e il 1931, sia nella Guerra d’Etiopia e nella repressione della guerriglia abissina. Governatore della Cirenaica tra il 1930 e il 1931 e viceré d’Etiopia tra il 1935 e il 1936, ribattezzato nell’opinione comune “macellaio del Fezzan” in riferimento alle brutalità della campagna libica. Nel dopoguerra fu poi inserito dalla Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra con particolare riferimento alla repressione etiope; mancò però un processo e venne negata l’estradizione in Etiopia, prediligendo una condanna a 19 anni di carcere per collaborazionismo.

Nel capitolo conclusivo dell’opera Roma negata (2014) di Scego, l’autrice ripercorre dunque le vicende relative al Mausoleo e racconta la visita sul sito in occasione della celebrazione del 25 Aprile del 2013. Dai racconti dell’autrice emerge il clima di amnesia selettiva verso i crimini di guerra e il desiderio, condiviso tanto dal alcuni cittadini quanto dal sindaco, di commemorare Graziani in qualità di cittadino affilano degno di nota e nazionalmente conosciuto.

In merito a questa prospettiva è interessante sottolineare come in questo processo di rimozione storica risulti determinante il ruolo giocato dalla fama, spesso in grado di offuscare, come in questo caso, anche il ricordo di crimini di guerra. Come riportato da Wu Ming, infatti, il sindaco Viri affermò nei comunicati della giunta prima della definitiva condanna del 2015 di aver voluto onorare Graziani in quanto «uno dei personaggi più illustri di Affile», e poiché il nome del Maresciallo/Macellaio d’Italia che trascorse parte della propria infanzia e giovinezza ad Affile rese celebre il piccolo comune della Valle dell’Aniene.

Tale riflessione pone centralmente il grado di celebrità e di fama nella costruzione di un personaggio, sia nei suoi meriti sia nei suoi crimini; per Wu Ming, infatti, la costruzione del Mausolei di Affile è motivata da una «ideologia da reality» per cui l’importante è che uno diventi famoso, non importa per quale motivo.

Nella medesima relazione della giunta il sindaco dichiarò anche che «Graziani non fu un criminale di guerra, tanto è vero che non fu condannato a Norimberga». La mancanza di un vero e proprio processo e di una Norimberga italiana ha rappresentato infatti – e continua a rappresentare a distanza di decenni – un punto di forza per i miti sul colonialismo italiano; nessun italiano fu infatti condannato a Norimberga e le pene del grande processo riguardarono unicamente criminali di guerra tedeschi.

Evelyn De Luca

FONTI:
Nicola Zingaretti: no al monumento per ricordare un criminale di guerra fascista, stragista del colonialismo. #25aprile, disponibile su https://www.change.org/p/nicola-zingaretti-no-al-monumento-per-ricordare-un-criminale-di-guerra-fascista-stragista-del-colonialismo-25aprile, consultato il 12/11/20.
Per la foto: https://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_aprile_23/affile-regione-revoca-finanziamento-mausoleo-rodolfo-graziani-7af0a1b8-e9b0-11e4-8a77-30fcce419003_foto_zoom_big.shtml

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La mia casa è dove sono; come farsi crocevia tra Roma e Mogadiscio

Come si vive tra due identità, come si fa ad essere un ponte tra due mondi così lontani eppure così intimamente vicini?

Tra le risposte migliori a un quesito identitario così complesso arriva la voce dell’autrice italo-somala Igiaba Scego nel memoir La mia casa è dove sono (2010) che ha l’obbiettivo di trascrivere l’autobiografia geografica dell’autrice e di “invertire di segno” una disciplina cartografica ancora eurocentrica e politicamente schierata.

Scego, scrittrice italiana nata a Roma nel 1974 da genitori somali fuggiti dopo il colpo di stato di Siad Barre, adotta per i suoi personaggi una posizione decentrata; non si tratta di una limitazione ma di una ulteriore ricchezza in grado di riarticolare il soggetto e lo spazio della narrazione attraverso coordinate variabili di conoscenza. La posizione privilegiata consente di oscillare tra “centro” e “margine” con un’abilità simile a quella della ubiquità; la marginalità risulta dunque una posizione politica e l’identità diventa una disidentità fondamentale per comprendere lo spazio, ed in particolare il territorio romano.

“Essere italiani a ben vedere significa fare parte di una frittura mista. Una frittura fatta di mescolanze e contaminazioni. In questa frittura io mi sento un calamaro molto condito. Che significa essere italiano per me… una domanda che batteva come un viandante sconosciuto alla porta di casa: io ho provato a scriverla una risposta. […] Non avevo una risposta. Ne avevo cento. Sono italiana, ma anche no. Sono somala, ma anche no. Un crocevia, uno svincolo. Un casino. Un mal di testa. Ero un animale in trappola. Un essere condannato all’angoscia perenne.”

Quel che appare inizialmente come una lacerazione tra due sfere culturali incompatibili si sana attraverso la conciliazione di diverse componenti identitarie, una somala ed una italiana. La risposta al tormento è nel potere performativo della narrazione; scrivere, raccontarsi, parlare di Roma e della propria vita significa nel panorama sociale attuale riappropriarsi degli spazi e disegnare una nuova mappa che sia frutto di contaminazione e integrazione.

Scego racconta una storia, la propria storia, che è anche una geografia, la propria geografia; non vive a metà, ma invece vive doppio nel momento in cui comprende il proprio status e trasforma la propria “condanna” – termine utilizzato dall’autrice – in ricchezza, spesso con ironia: «A Roma la gente corre sempre, a Mogadiscio la gente non corre mai. Io sono una via di mezzo tra Roma e Mogadiscio: cammino a passo sostenuto.».

La mappa che il personaggio Igiaba realizza ha un carattere altamente simbolico che le consente di ripercorre e accettare la propria condizione identitaria. Il racconto così riunisce personaggi emigrati in luoghi diversi ma accumunati dallo stesso sentimento nostalgico e dal desiderio di ricostruire la Mogadiscio dei loro ricordi. La memoria della città andata distrutta è infatti l’unico lascito; la protagonista Igiaba si sforza per recuperare più ricordi possibili e li innesta sulle vie di Roma, le strade della sua infanzia e della sua adolescenza.

La mappa diventa dunque una cartografia intima; costruire la propria geografia per la protagonista significa fondere inevitabilmente le due città – Roma e Mogadiscio – a cui sente di appartenere, legate tra loro sia da ragioni politico-storiche sia da una cittadinanza affettiva. Essendo la mappa la trasposizione grafica di memorie personali e collettive, tracciare la città somala per Igiaba non è più sufficiente, ma è necessario introdurre anche l’ambiente romano. Tra le due città, tra le due culture, cessa di esistere un confine netto. Il personaggio Igiaba è un ponte, un’equilibrista, una che è sempre in bilico e non lo è mai; Mogadiscio diventa Roma, Testaccio diventa Maka al Mukarama e viceversa, fino a creare una topografia privata ed una “casa” che non è più un luogo fisico ma l’esito di esperienze, vite intrecciate e ricordi.

Evelyn De Luca

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Il latte è buono: il primo impatto con Roma di un ex colonizzato

Qual è la prima impressione che hai avuto di Roma? E qual è la prima impressione che Roma ha avuto di te?

Il romanzo Il latte è buono di Garane Garane, pubblicato nel 2005, racconta proprio le difficoltà di integrazione, quei piccoli e grandi ostacoli in una metropoli così variegata e fervida. Il semplice titolo di questo romanzo indica poi il desiderio più caro nella vita di un nomade del Corno d’Africa, «poiché quando c’è la pace, piena e intera, il latte è più dolce, più schiumoso del solito».

Il protagonista del romanzo è Gashan, discendente di Kenadit, futuro sindaco di Mogadiscio e Ministro dei Trasporti dopo il colpo di Stato somalo di Siad Barre. L’autore Garane e il suo personaggio Gashan condividono una educazione improntata sul sistema scolastico italiano, sulla sua letteratura e la sua lingua; il personaggio, infatti, decide di abbandonare la Somalia per emigrare in Italia con cui sente una forte connessione culturale e identitaria.

La permanenza di Gashan in Italia – che non durerà a lungo, poiché il personaggio prediligerà la Francia come spazio di ricerca della propria identità – mostra fin dai primi passi la difficoltà di integrazione sotto uno sguardo italiano spesso ostile. L’arrivo in Italia del protagonista è ricolmo di speranze, principalmente dovute all’immagine di una Italia studiata e mistificata:

Era felicissimo! Roma l’eterna era lì con le sue eccelse mura, di fronte ai suoi umili occhi […] Ma già nell’aeroporto si sentiva solo, in un posto chiuso e inospitale. C’erano facce che assomigliavano più agli arabi che ai Romani che lui si era immaginato attraverso letture storiche. […] Cominciò a frugare nella sua borsa. Trovò il passaporto in cui era scritto Repubblica di Somalia. Lo guardò assorto. Era somalo, ma bianco dentro. Era un bianco dalla maschera nera. Il problema era che aveva sempre creduto che ciò che è interno può essere esterno anche.

L’ambiente che accoglie Gashan si caratterizza per una forte debolezza sociale, non all’altezza della formazione sia culturale sia linguistica del personaggio. L’Italia è un Paese che Gashan pensa di conoscere e a cui sente di appartenere.

Il primo impatto con la realtà rivela però subito agli occhi di Gashan come la realtà gli sia ostile; non vi è nessuna corrispondenza tra lo spazio in cui si inserisce e quello immaginato. Gashan viene accolto con sospetto già dal momento in cui mostra il passaporto ad un poliziotto romano: come fa ad essere scritto in italiano? E come fa Gashan a parlare così perfettamente italiano?

Gashan nel momento in cui arriva, smette di riconoscersi in una duplice identità somala e italiana; non percepisce più questa condizione come una ricchezza ma la percepisce – e viene percepita anche dallo spazio esterno con cui si rapporta – come una identità difettosa e incompleta. Invece di sentirsi a tutti gli effetti italiano per la conoscenza perfetta della cultura e della lingua, smette di sentirsi sia somalo sia italiano. Il poliziotto che incontra ulteriormente mette in discussione il senso di appartenenza di Gashan dimostrando un razzismo velato e una immediata emarginazione che gettano il protagonista nella disillusione.

L’emigrazione di Gashan, dunque, risulta fondamentale per osservare le modalità con cui l’identità nazionale italiana viene immaginata. Questo ed altri testi della diaspora somala consentono di sviluppare una visione critica della storia e della cultura italiana evidenziando come il legame tra i due Paesi non possa arrestarsi alla fine del protettorato italiano in Somalia (1960); la connessione tra le due società e le due culture permane infatti nelle menti degli ex colonizzati attraverso l’industria culturale, l’educazione e la rappresentazione nei media.

L’opera di Garane Garane può essere interpretata come una denuncia del problematico rapporto tra città metropolitana e diversità, tanto che Gashan decide di abbandonare l’Italia e la Francia per tornare in Somalia – durante gli anni della guerra civile – e riuscire finalmente ad accettare la propria identità multiculturale ed ibrida mai realmente integrata nelle comunità a cui aveva pensato di appartenere.

Evelyn De Luca

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Come una pianta d’incenso nell’Orto di Roma può cambiarti la vita

Alle pendici del Gianicolo, attorno al palazzo romano di Villa Corsini nel cuore di rione Trastevere, si trova il bellissimo Orto Botanico di Roma con una varietà straordinaria non solo di vegetazione, ma anche di storie umane. Proprio alla scoperta di una storia di accettazione ed inclusione è dedicata questa tappa nel nostro itinerario tra i luoghi romani, indagando le profonde connessioni con la questione coloniale italiana e le problematiche di tutti i ragazzi di seconda generazione. Siete pronti?

L’orto Botanico di Roma è lo scenario di un interessantissimo racconto – che vi consiglio di leggere – dal titolo “Rapdipunt” dell’autrice italo-somala Ubax Cristina Ali Farah. Nello specifico Rapdipunt è un monologo della protagonista che si rapporta ad un gruppo di adolescenti, tutti maschi di origine africana, ispirati alle vicende della Comitiva Flaminio negli anni ’80 il cui luogo di ritrovo era piazzale Flaminio a Roma. Nel gruppo di ragazzi le difficoltà tipiche dell’età si aggiungono alla questione identitaria e a quella disillusione che si genera fin dalla prima adolescenza riguardo le false promesse sul proprio futuro italiano. Nonostante siano molto giovani, i personaggi sono infatti descritti con serietà e sembrano possedere una forma di scetticismo nei riguardi della realtà che li circonda.

Il racconto di Ali Farah rappresenta una scena di vita quotidiana che si svolge in storici luoghi romani, elementi integranti della crescita e della costruzione identitaria dei ragazzi che appartengono tutti alla seconda generazione, con una perfetta dominanza della lingua e soprattutto del dialetto romano. Nonostante ciò, permane in questi giovani un senso di inadeguatezza e manca il senso di una piena inclusione sul territorio. La coesistenza e l’oscillazione tra due identità diverse nei giovani di seconda generazione – identità non sempre in grado di conciliarsi armonicamente – genera un senso di spaesamento e l’incapacità di sentirsi realmente appartenere agli spazi. L’idea che fatica ancora ad entrare nell’opinione comune è però che la sensibilità nuova di cui si fanno portatori i ragazzi della comitiva consente di avere uno sguardo innovativo sugli spazi.

Uno dei ragazzi di origine somala del racconto – Mauro, nato e cresciuto a Roma – ascolta da un signore incontrato per strada storie e leggende sulla resistenza somala e viene condotti all’Orto Botanico di Roma per vedere una piccola e apparentemente insignificante pianta di incenso tipica ed originaria della Somalia.

Trovare in un luogo così importante per Roma una piccola pianta d’incenso rappresenta per i ragazzi della compagnia la riscoperta di un legame col passato e un parziale radicamento al presente. Quel che emerge infatti continua ad essere la disillusione delle seconde generazioni e l’impatto della rimozione storica sui luoghi, sulle storie personali e sul processo di integrazione; la relazione storica tra Somalia e Italia è in questo caso ineludibile, ma gli stessi ragazzi della compagnia non avvertono più una vicinanza emotiva con gli spazi e con le persone che li abitano.

La pianta di incenso, dunque, e il fatto che sia reperibile nell’Orto Botanico di Roma, sotto gli occhi di tutti ma nello stesso tempo lontana, consente ai ragazzi di recuperare un legame con la terra in cui vivono; un legame che non si limiti ad essere solo geografico – considerando l’Italia come meta prediletta per l’emigrazione, per la sua ubicazione nel Mediterraneo – ma che sia soprattutto un legame storico ed affettivo.

Evelyn De Luca

Fonti

Ubax Cristina, Ali Farah, Rapdipunt, in La letteratura postcoloniale italiana, dalla letteratura d’immigrazione all’incontro con l’altro, a cura di T. Morosetti, numero monografico di “Quaderni del’ ‘900”, IV, 2004.

Caterina, Romeo, Riscrivere la nazione: la letteratura italiana postcoloniale, Le Monnier Università, Firenze, 2018.

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Il caso del Cinema Impero – Roma e Asmara a un passo di cuore

«“Arzete” fece allora, “e vattene ggiù pe l’Acqua Bullicante, che io te vengo appresso.” Chiacchierando si rifecero tutta la via dell’Acqua Bullicante, mentre alle loro spalle le sambe suonate al fonografo e i canti della processione andavano smorzando. C’era ormai solo qualcuno che tornava dal Preneste o dall’Impero verso la Borgata Gordiani, o verso il Pigneto, oppure qualche ubriaco che rincasava cantando ora Bandiera Rossa ora la Marcia Reale.»

È così che scriveva Pier Paolo Pasolini nel suo Ragazzi di vita, raccontando di una umanità dimenticata sul bordo delle strade e di ragazzini che s’affacciano sul cinismo del mondo in uno dei quartieri più fervidi e dinamici della Roma del secondo dopoguerra: Tor Pignattara.

È tra le strade di Tor Pignattara che inizia il nostro itinerario.

Qui, in Via dell’Acqua Bullicante 123, dove i ragazzetti pasoliniani chiacchieravano e compivano piccoli furti, era stato inaugurato nella metà degli anni ’30 il Cinema Impero. Con una forte impronta fascista e in stile Art Decò, l’Impero fin dai primi anni di attività rappresentò un luogo imprescindibile nella vita popolare, sintesi perfetta di affaire galanti ed incontri loschi, punto di riferimento di generazioni di abitanti del quartiere romano e spazio attorno cui orbitavano principalmente giovani.

La struttura venne poi abbandonata in uno stato di totale degrado a partire dal 1983 nonostante i diversi progetti di riqualificazione urbana ed il tentativo nel corso degli anni di trasformare l’Impero in un cantiere artistico e culturale polifunzionale.

Se cammini a Tor Pignattara e presti attenzione alla facciata deteriorata dell’Impero, puoi notare ancora oggi la citazione di Pasolini e la scritta provocatoria «Ci siamo trasferiti ad Asmara». Questa frase è apparentemente insignificante, ma rappresenta invece un fondamentale collegamento tra la realtà italiana e quella eritrea e il tentativo di creare una memoria in uno spazio politicamente manipolato nella direzione della rimozione storica del colonialismo all’interno dell’esperienza italiana.

La costruzione del Cinema Impero avvenne infatti nel periodo di massimo consenso al regime fascista e di massima espansione italiana, parallelamente ad un nuovo progetto architettonico dell’Italia oltre il Mediterraneo con l’obbiettivo di riproporre in Eritrea una architettura che fondesse modernismo, futurismo ed un inconfondibile stile littorio. La struttura del Cinema Impero, decodificata e adattata alla sua funzione di spazio d’aggregazione, dopo essere stata costruita a Roma fu ripresa e riproposta ad Asmara (Eritrea) seguendo il medesimo format architettonico, realizzando un Cinema quasi identico nel 1937 ed attualmente ancora in uso.

Il tentativo di riprodurre in Eritrea una città coi connotati tipicamente italiani celava però una ulteriore brama di assoggettamento e una presunta inferiorità della capitale eritrea su quella italiana. Ad Asmara – ma anche nella città portuale di Massaua e nelle città minori, ma in maniera meno evidente – si tentò di imporre una prossimità storica, politica ed architettonica che valse alla capitale eritrea il nome di “Piccola Roma”. La pianificazione urbanistica e delle infrastrutture permise una forte innovazione in campo architettonico, applicando al contesto eritreo tendenze stilistiche tipicamente europee ed imponendo nella gestione degli spazi un controllo sorvegliato, per delimitare i confini di una Asmara tranquilla e pacifica, distinguibile facilmente dal caos delle altre città del Corno d’Africa.

Quella che fu proiettata su Asmara fu però un’utopia architettonica e urbanistica, mai definitivamente conclusa, che vedeva la città come una meta privilegiata di emigrazione italiana secondo il piano d’espansione fascista.

Ad oggi però, nonostante il tentativo di ricreare una “Piccola Roma” su suolo eritreo, solo in pochi sentono lo stretto legame tra l’Italia e le ex colonie; quel legame tra il Cinema Impero di Roma che sembra ormai solo un locale dismesso e il suo fratello eritreo, ancora attivo e punto di ritrovo della capitale. La semplice scritta “Ci siamo trasferiti ad Asmara” rappresenta così, in un territorio che spesso cerca di negare le sue connessioni storiche, il desiderio di rivendicare uno spazio; educare il passante a guardare con criticità alla realtà, scoprire laddove vi sia stato un tentativo di occultamento storico, legittimare uno spazio.

Questa semplice scritta crea infatti un collegamento tra l’Italia e il suo passato coloniale; è una rivendicazione di appartenenza di tanti migranti e figli di migranti, di storie di vita vissuta e di persone che cercano luoghi da abitare, in cui muoversi, in cui integrarsi, in cui sentirsi a casa.

Un grazie speciale e un invito alla lettura dei testi dell’autrice italo-somala Igiaba Scego, una ricchezza straordinaria per Roma e per tutte le storie che sa raccontare nel suo modo unico di dire le cose.

Evelyn De Luca

#LoSapevateChe

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Abitare la spaccatura – come camminare può diventare un atto politico

Camminare per una città, appropriarsi degli spazi, riconoscere le connessioni profonde tra i luoghi storici del nostro Paese, è un atto fortemente politico. Camminare poi tra i luoghi simbolici del colonialismo italiano – più o meno riconoscibili per un qualsiasi passante distratto – vuole dire cercare di porre la questione coloniale in una luce nuova, e comprendere quei complessi meccanismi della storia coloniale italiana e delle sue conseguenze in epoca postcoloniale. È con questa considerazione che vuole iniziare la rubrica #LoSapevateChe!

A oggi si parla spesso di “seconda generazione” (G2) per racchiudere in una etichetta non sempre lusinghiera ragazze e ragazzi figli degli immigrati, nati in Italia oppure arrivati nel Paese nei primi anni di vita o anche in fase adolescenziale; una categoria che raccoglie dunque le casistiche più disparate con storie e background culturali profondamenti diversi tra loro. La presenza sempre più numerosa di questa componente eterogenea rende necessaria una riflessione sull’esito – a distanza di decenni – dell’immigrazione sul piano sociale e su come essa si trasformi in un insediamento durevole; su come, dunque, siano mutati i rapporti tra due o più culture che si scontrano e si incontrano e sulle aspettative future dei ragazzi di seconda generazione.

Nel panorama sociale e culturale dell’Italia contemporanea comprendere gli spazi e le dinamiche di potere presenti sul territorio consente una rilettura del concetto stesso di italianità; un concetto mutevole, connesso a una identità flessibile e in continua negoziazione, che sia un grado di cogliere spinte culturali e sociali diverse. Parlare di italianità nei termini convenzionali, infatti, non consente di comprendere a pieno la polifonia di voci e testimonianze che agiscono nel nostro spazio e migrano da un luogo a un altro.

Ragazze e ragazzi G2, la loro voce, la loro sofferenza e le loro aspettative sull’Italia, consentono forse più di qualsiasi altro fenomeno sociale di ampliare il concetto di italianità e proporre una visione nuova non limitata esclusivamente allo status giuridico dell’essere cittadini italiani, ma comprendente sfaccettature diverse sul piano sociale, culturale e linguistico. Arrivare, dunque, a una inclusione progressiva e all’idea di una cittadinanza flessibile vuole essere l’obbiettivo di questa rubrica per aiutare, anche solo in maniera impercettibile, tanti giovani a pieno titolo italiani ma che, per questioni che man mano indagheremo più specificatamente, non vengono percepiti tali nello spazio che abitano.

Ad oggi risulta indispensabile una costante interconnessione globale e multi-vocale che operi in maniera fluida e flessibile; pensare infatti che una comunità all’interno di confini nazionali, sia fisici sia simbolici, possa essere etnicamente omogenea è ormai una prospettiva anacronistica. Quel che è necessario è invece un un border thinking che colga le dinamiche reticolari dello spazio, e che riesca a muoversi con contaminazioni, assemblaggi, costellazioni, legami orizzontali e trasversali.

Per questo motivo camminare vuole dire riscoprire sul territorio memorie celate e negate; soltanto rileggere la storia coloniale italiana, senza più giustificazioni, consente di riappropriarsi dello spazio e di aiutare la seconde generazioni a diventare soggetti attivi nelle città che abitano. Raccontare i luoghi attraverso la storia coloniale ed imparare ad abitare le spaccature della nostra era consente così di essere un crocevia e il tramite per una nuova concezione di spazio urbano.

Partendo dal Cinema Impero di Tor Pignattara per continuare poi con tutti i luoghi di rimozione storica del colonialismo italiano, quel che faremo in questa rubrica sarà quindi comprendere quel legame storico, geografico, politico, architettonico e affettivo che l’Italia ha posseduto e possiede con le ex colonie, e con tutti quei figli che dovrebbe imparare ad accettare.

Evelyn De Luca