La mia casa è dove sono; come farsi crocevia tra Roma e Mogadiscio

Come si vive tra due identità, come si fa ad essere un ponte tra due mondi così lontani eppure così intimamente vicini?

Tra le risposte migliori a un quesito identitario così complesso arriva la voce dell’autrice italo-somala Igiaba Scego nel memoir La mia casa è dove sono (2010) che ha l’obbiettivo di trascrivere l’autobiografia geografica dell’autrice e di “invertire di segno” una disciplina cartografica ancora eurocentrica e politicamente schierata.

Scego, scrittrice italiana nata a Roma nel 1974 da genitori somali fuggiti dopo il colpo di stato di Siad Barre, adotta per i suoi personaggi una posizione decentrata; non si tratta di una limitazione ma di una ulteriore ricchezza in grado di riarticolare il soggetto e lo spazio della narrazione attraverso coordinate variabili di conoscenza. La posizione privilegiata consente di oscillare tra “centro” e “margine” con un’abilità simile a quella della ubiquità; la marginalità risulta dunque una posizione politica e l’identità diventa una disidentità fondamentale per comprendere lo spazio, ed in particolare il territorio romano.

“Essere italiani a ben vedere significa fare parte di una frittura mista. Una frittura fatta di mescolanze e contaminazioni. In questa frittura io mi sento un calamaro molto condito. Che significa essere italiano per me… una domanda che batteva come un viandante sconosciuto alla porta di casa: io ho provato a scriverla una risposta. […] Non avevo una risposta. Ne avevo cento. Sono italiana, ma anche no. Sono somala, ma anche no. Un crocevia, uno svincolo. Un casino. Un mal di testa. Ero un animale in trappola. Un essere condannato all’angoscia perenne.”

Quel che appare inizialmente come una lacerazione tra due sfere culturali incompatibili si sana attraverso la conciliazione di diverse componenti identitarie, una somala ed una italiana. La risposta al tormento è nel potere performativo della narrazione; scrivere, raccontarsi, parlare di Roma e della propria vita significa nel panorama sociale attuale riappropriarsi degli spazi e disegnare una nuova mappa che sia frutto di contaminazione e integrazione.

Scego racconta una storia, la propria storia, che è anche una geografia, la propria geografia; non vive a metà, ma invece vive doppio nel momento in cui comprende il proprio status e trasforma la propria “condanna” – termine utilizzato dall’autrice – in ricchezza, spesso con ironia: «A Roma la gente corre sempre, a Mogadiscio la gente non corre mai. Io sono una via di mezzo tra Roma e Mogadiscio: cammino a passo sostenuto.».

La mappa che il personaggio Igiaba realizza ha un carattere altamente simbolico che le consente di ripercorre e accettare la propria condizione identitaria. Il racconto così riunisce personaggi emigrati in luoghi diversi ma accumunati dallo stesso sentimento nostalgico e dal desiderio di ricostruire la Mogadiscio dei loro ricordi. La memoria della città andata distrutta è infatti l’unico lascito; la protagonista Igiaba si sforza per recuperare più ricordi possibili e li innesta sulle vie di Roma, le strade della sua infanzia e della sua adolescenza.

La mappa diventa dunque una cartografia intima; costruire la propria geografia per la protagonista significa fondere inevitabilmente le due città – Roma e Mogadiscio – a cui sente di appartenere, legate tra loro sia da ragioni politico-storiche sia da una cittadinanza affettiva. Essendo la mappa la trasposizione grafica di memorie personali e collettive, tracciare la città somala per Igiaba non è più sufficiente, ma è necessario introdurre anche l’ambiente romano. Tra le due città, tra le due culture, cessa di esistere un confine netto. Il personaggio Igiaba è un ponte, un’equilibrista, una che è sempre in bilico e non lo è mai; Mogadiscio diventa Roma, Testaccio diventa Maka al Mukarama e viceversa, fino a creare una topografia privata ed una “casa” che non è più un luogo fisico ma l’esito di esperienze, vite intrecciate e ricordi.

Evelyn De Luca