Oggi voglio parlarvi di una persona che tutti dovremmo conoscere, e di cui credo non si parli abbastanza: Lady Diana Spencer, principessa del Galles, e lo farò grazie alla miniserie documentaristica di due puntate gentilmente offerta da Netflix, “The Story of Diana”, del 2017.
Il novecento sarà a lungo considerato il secolo dei grandi traumi, non solo politici e sociali, bensì pure antropologici. La crisi che ne è derivata è divenuta nel corso dei decenni cifra insostituibile di tale periodo storico, occupando della realtà l’anima e il corpo. Tra i concetti più icastici per raffigurare la portata del fenomeno, la filosofia di tipo esistenzialista ha evocato la nozione di Bodenlosigkeit, vale a dire il verificarsi di una situazione in cui l’uomo è sottratto dal proprio spazio di origine per essere gettato in un altrove ostile a lasciarsi abitare. L’uomo in questo scenario non è più a casa, egli vaga tra città sfigurate e luoghi insoliti.
Questa settimana protagonista – e vittima – dell’articolo sarà una serie TV AmazonOriginal: “Upload”.
Ideata da GregDaniels – che ha scritto la sceneggiatura di varie puntate dei “Simpson” e della versione americana di “The Office” -, con protagonisti RobbieAmell e AndyAllo, la prima stagione di “Upload” è uscita l’anno scorso, mentre nel 2021 dovrebbe uscire la seconda.
La storia è ambientata in un futuro distopico che riprende un petit peu le sfumature di “Black Mirror”. In “Upload” quando si muore, si può pagare per trasferire la propria coscienza in una realtà virtuale dove si trascorrono le giornate in attesa che la scienza riesca a replicare il proprio corpo.
Oui mes amis, capisco che potrebbe sembrare una serie TV fantascientifica distopica, ma in realtà si tratta di una commedia.
In questo mondo in cui i ricchi aspirano alla vita eterna, il protagonista si ritrova vittima di un incidente stradale e la sua coscienza viene caricata in questa realtà virtuale, che di fatto ha le sembianze di un albergo. Mais, mes amis, non è stato lui a richiedere il trasferimento della sua coscienza, quindi dovrà cercare di capire perché l’hanno trasferito lì, e soprattutto se qualcuno l’ha ucciso di proposito.
Per di più, in questa realtà virtuale, ogni coscienza è affiancata ad un angelo – ossia un operatore del call center di supporto del programma – e la regola principale è, bien sûr, non innamorarsi. Mais bien sûr, come da cliché, scocca l’amore.
“Upload” è quindi una serie TV polistilistica, infatti contiene diversi generi che si intrecciano: fantascienza nello stile di “Blackmirror”; un petit peu di mistery per capire chi ha voluto che la coscienza di Nathan – il protagonista – si ritrovasse coinvolta in questo progetto; beacoup romantica e une once drammatica.
Quindi, mes amis, giungiamo alla fatidica domanda: ve lo consiglio? Bien sûr cari lettori! Se volete una serie TV che vi prenda e che riesca a coinvolgervi a 360 gradi, permettendovi però al contempo di fare binge watching perché non è troppo complessa, allora “Upload” fa per voi. Soprattutto se siete deboli di cuore e cedete facilmente di fronte al romanticismo.
Durante la settimana della Festa della Donna, non potevo non dedicare questo spazio ad una delle grandi donne del passato, di cui credo non si parli mai abbastanza: Mary Stuart, la regina di Scozia, aaaaand to do so, dobbiamo viaggiare un po’ a ritroso nel tempo, per ritrovarci magicamente nel Cinquecento, più precisamente a cavallo tra la Scozia, la Francia e l’Inghilterra.
Presentazioni #ReceUstioni Emanuela, Francesca e Livio
Mes amis, cari lettori di #Receustioni e popolo di UNINT, bentornati (o benvenuti) sul nostro Blog. Mi presento: sono Emanuela (Elena) Batir, classe ’97 – tra qualche giorno sarà il mio compleanno, anche se prevedo altri 10 mesi in cui continuerò a spacciarmi per una ventitreenne. Studio Interpretariato, da piccola ho cambiato spesso le mie ambizioni, passando dal voler diventare archeologa al voler fare la scrittrice, ma l’unica cosa che non è mai cambiata è la mia passione per le lingue, quindi eccomi qui. Nella mia -breve- vita mi sono data alla pazza gioia, e ho studiato tedesco, francese, inglese, spagnolo, russo e ho anche tentato di avvicinarmi al cinese, però non era un amore destinato a durare, c’est la vie.
Vengo da Bruino, un paesino bucolico in provincia di Torino, ma sono originaria della Romania (Suceava per la precisione, una città nel Nord Est del Paese dove il Natale è il periodo più magico dell’anno), ho fatto la triennale a Siena, l’Erasmus a Londra e ora sono a Roma… mi piace cambiare spesso aria. Ogni città in cui ho vissuto mi ha arricchita in diversi modi, insegnandomi ad apprezzare diversi aspetti della vita: Suceava il calore dei cari e il piacere del stare in famiglia, Bruino la calma delle montagne e la pace interiore con un buon bicchiere di vino, Siena l’indipendenza e l’amicizia, Londra il brusio dell’incontro delle diverse culture e Roma l’eterna bellezza e la fugacità di ogni attimo che viviamo.
L’anno scorso, più o meno in questo periodo, galeotto fu un corso universitario dove incontrai Ilaria, che mi parlò del blog. Ero entusiasta e non vedevo l’ora di iniziare a scrivervi, ma poi una pandemia mondiale ha deciso di rovinare i miei piani e quindi adieu interviste dal vivo, bienvenue articoli in smartworki. Quest’anno, quando Ilaria mi chiese se avevo in mente una rubrica da inserire nel blog, pensai subito alle recensioni di film e libri, perché mi reputavo una ragazza alternativa pronta a stupirvi con pensieri contro tendenza. Invece sono molto basic, con la mia passione per il rosa e per i gatti, e quindi alla fine invece di rivoluzionare la rubrica con unpopularopinions, ho dovuto puntare sulla simpatia per attirare nuovi lettori, un nuveau public.
Il blog per me è stata una valvola di sfogo durante il lockdown, e mi ha permesso di pensare ad altro, non solo agli esercizi di interpretariato e alle dirette televisive sulla situazione pandemica, oltre a rappresentare una realizzazione del mio sogno da bambina di diventare scrittrice – ora manca solo un invito formale agli scavi dei Fori a Roma per realizzare anche il sogno di diventare archeologa, poi potrò dirmi soddisfatta.
À bientôt con nuove #ReceUstioni,
Emanuela
Chi è Francesca?
Non potrei presentarmi altrimenti che attraverso ciò che riempie ogni secondo delle mie giornate: l’amore incondizionato per l’arte, in tutte le sue forme. E prima che skippiate queste righe, vi blocco chiedendovi di chiudere per un secondo nell’armadio Dante, Leonardo e Piero Angela, and keep your eyes on me, ok?
Come la definite quella sensazione di calduccio, di “casa”, che bramate quando la noia vi attanaglia?
Ecco, quello che provo io a leggere un bel libro, o a riversare nero su bianco ciò che mi implora di esser trasformato in inchiostro vivo, è esattamente questo. Fin da piccola la scrittura, forse ancor prima della lettura, è stata il mio modo di dar forma e colore alla mia inguaribile indole empatica e anche un po’ sognatrice, l’unico modo che conosco da sempre di mostrarmi senza filtri. Esattamente come faccio quando chiudo la porta della mia stanza e con la musica dentro e tutt’attorno, mi rimetto a ballare come se nessuno guardasse, e torno la Francesca di quelle lezioni di danza di qualche anno fa in cui ho imparato, passo dopo passo, a lasciarmi andare al ritmo della musica, e mi sono ritrovata.
Poi si sa, l’arte ha tante, troppe forme che non devo star qui a spiegarvi, e la vita è troppo breve per non esser curiosi e immergersi completamente in storie, mondi e occhi di persone sconosciute e terre lontane, o sorprendentemente vicine. Chiunque, in qualunque momento, ed ovunque, può regalarci qualcosa che prima non sapevamo nemmeno esistesse, o farci ritrovare parti di noi stessi che pensavamo di non avere più. La bellezza è dappertutto, sempre, ci circonda, è dentro e fuori di noi.
Francesca Nardella
Salve a tutti,
mi chiamo Livio, 24 anni, e da qualche settimana fomento la rubrica di #ReceUstioni.
Vengo dall’Abruzzo, terra magnifica, dove le montagne si specchiano nell’Adriatico, eletta da Dio come patria dell’arrosticino e del Montepulciano. Da un anno e mezzo vivo ne ‘a Capitale, e poiché credo che molti la conoscano abbastanza, non mi dilungherò a parlarne. Da buon mediterraneo, vivo grazie al sole, al cibo e all’abbiocco… ah e ai liquori fatti in casa. Mi culla, dacché ero un pargolo, un indole scanzonata, riguardosa per le tempie, e mai, dico mai, affrettata nei giudizi. Eccetto che per la cultura da tv, sorrisi e canzoni. Nostalgico per una verve artistica mai germogliata, leggo leggo leggo leggo e leggo, poi leggo leggo leggo e ancora leggo. Amo, ma in realtà odio, l’arte dello scrivere in quanto totale maldestro nell’accostare parole dense di significato e icasticità, come voleva Italo Calvino. Da studente di traduzione mi esercito in questo sport tra olimpici della parola; al mattino anziché studiare mi getto a capofitto a tradurre romanzi che mi invaghiscono, nel tentativo di a) dimostrare al traduttore scritturato di essere più Pavese di lui e b) omaggiare gli spiriti letterari stranieri con il suono malinconico e farsesco dell’italiano. In realtà ci sarebbe anche la c) ma ci vorrà sangue e lacrime per fare di questa splendida “arte” un mestiere.
Altri miei interessi riguardano l’escursionismo, la cinematografia italiana e la geopolitica.
A proposito della rubrica di cui faccio parte, credo sia un spazio geniale per condividere impressioni, gusti, tentazioni, aneliti, che le arti ci ispirano, soprattutto in questo momento dove la distanza spesso genera silenzio. A questo proposito, spero che nei mesi a seguire riuscirò a infondere qualche curiosità in chi leggerà le nostre pagine.
Ringrazio Ilaria Violi, direttrice del blog, per la bella idea di averci lasciato dello spazio per presentarci. Un saluto a tutti gli studenti e al popolo UNINT.
Niente ci
accarezza di più il respiro delle grandi storie d’amore immortalate nella forma
del romanzo. Freud asseriva che la nostra vita psichica è tanto più sana quanto
più si ama e si è contraccambiati, e il romanzo ci permette di acuire quella
riposta intelligente che si spera sia in noi, tanto più se la storia e i suoi
attori ci invitano a intraprendere quel viaggio iniziatico che è l’eros.
Il romanzo di
cui tenterei un sobrissima esposizione tratta proprio di un viaggio: geografico,
tecno-assistito, escatologico, o più ancora psichico (mentale… detto tra noi,
sa di bimbominkia) se vogliamo. Un intinerium mentis alla Alighieri,
to’! Tuttavia, il titolo potrebbe trarre in inganno: sì perché In un amore
felice, sulle prime darebbe l’impressione di un accostamento mal riuscito di
due parole che, soprattutto ai più schifiltosi di noi, fanno sanguinare le
orecchie… ma nient’altro che una mera impressione.
L’opera, edita
da Adelphi, è una delle ultime fatiche letterarie di Guido Ceronetti, squisito
poeta e scrittore italiano, nonché teatrante e autore di formidabili traduzioni
di testi biblici e non solo. Una figura, quella di Ceronetti, poco gloriata
negli spazi ristretti in cui la letteratura si affaccia ai più, eppure notevole
suonatore di spariti letterari degni delle sale da concerto del XIX secolo.
Quella da lui
evocata nel romanzo è un’epopea leggendaria che vede protagonisti due anonime
figure umane, un uomo e una donna che, data la loro numerosa differenza d’età,
apparirebbero come coppia piuttosto improbabile negli scenari quotidiani,
eccetto là dove si staglia l’odore di meschini interessi. Sui due grava
l’oscuro presagio di un’invasione aliena che, lungi da rasentare il ridicolo
sproloquio ufologico a stelle e strisce, l’autore mutua dai primissimi
testi biblici del Genesi. Sullo sfondo, un’Italia ancora vergine delle grandi
avventure industriali (quella delle lucciole assai cara a Pasolini), con brevi
soggiorni nella Parigi tanto elogiata come pure bistrattata dagli autori del
Novecento, una Washington burocratica, già votata al controllo del mondo e una
Puerto Rico esotica ed edenica. In questo spazio epico, accompagnati da un mitico
carrozzone di comprimari e illustri comparse (da Orson Welles, a Robert Capa, e
a Louis Ferdinand Celine per termine con Nicola Tesla nella veste di padrino
dei protagonisti) i due attori si muovono, come anime spaurite, nel tentativo
di salvare l’umanità da una minaccia ignota e imperscrutabile.
L’imminenza
dell’apocalisse suggella intimamente il legame tra i due sventurati, lui vecchio
fotografo di guerra segnato dal tempo e dai dolori e lei molto più giovane, ma
nondimeno lacerata dalla lame della vita. È un amore, quello dipinto da Ceronetti,
vissuto ascoltando tutti i suoi echi, dai più lugubri rantoli della gelosia, ai
sospiri suadenti della voluttà, fino agli accenti di quella philia che i
filosofi antichi indicavano come la forza cosmica che spinge in armonica unità
gli elementi.
L’escamotage
fantascientifico degli alieni è rara metafora di quell’altro, che noi
figli della post-modernità (o modernità posticcia?) siamo soliti interpretare come
l’anelito di quei romantici fiaccati dalla storia o come entità che ci lusinga
fin quando è accomodante. Lo stesso autore, nella lettera rivolta al suo
pubblico posta in esergo al testo, fa ammissione di un inappagato bisogno di
Trascendenza che sarebbe errato confondere con un desiderio combattuto di conversione
religiosa. Un tentativo terreno di colmare l’abisso, semmai.
Nel
“depauperamento generale del Numinoso”, Ceronetti ci spinge ad esercitarci al
mistero, all’indistinto, al silenzio o, se non altro, alla voce leggera che si
appoggia sulle nostri menti. E visto l’avvicinarsi del Natale, quale eventi più
misterioso della venuta di Cristo?
Nel leggere il
romanzo (il che vi invito a fare, anche solo per solcare uno stream tutt’altro
che main, piatto, semmai appena sgorgato dalla fonte) non diffidate per
lo stile a tratti ‘ipercolto’ o per la sofisticata irrealtà che sembri
vi stia propinando: l’autore affida al romanzo un aspetto che esalti il suo
essere maestro di lingue colte e storie arcane.
Nel tentativo di celebrare il suo legame durevole col verso e l’aforisma, Ceronetti
non museifica la prosa, anzi è proprio dall’unione di queste dimensioni che
scaturisce un pastiche linguistico di vivente raffinatezza, che riempie un
vuoto stilistico.
In tempi in cui
ogni cosa la si osanna su schermi angusti e artificiosi, In un amore felice
ci consegna in mano una bussola per orientarci nello spazio intergalattico di
gioia e dolore, soffuso di naturale luce solare.
“Amore è
l’essenza perenne di tutte le creature, ma se non è congiunto a dolore non può
ritenersi perfetto. Agli angeli fu dato amore, non dolore; il dolore non si
addice che all’uomo.”
Farid ad-Din Attar
Bentornati mes
amis al nostro appuntamento con la rubrica #ReceUstioni. Questa settimana,
sull’onda dello spirito natalizio -avete fatto l’albero e/o il presepe l’8?-
anche la nostra rubrica si adatta. Protagonista dell’articolo di oggi sarà
infatti un film natalizio… Sì, già sento alcuni di voi abbandonare il blog, ma
vi assicuro che non si tratta del solito Cinepanettone.
Il titolo del film è “Non ti presento i miei”
-in inglese “Happiest Season”, ma forse il titolo italiano da’ maggiori indizi
sulla trama, che di base è la solita: per il periodo natalizio una coppia
decide di trascorrere il Natale con i genitori di uno dei due. L’aria di
cambiamento sta nella coppia stessa, e nel messaggio che il film vuole
trasmettere. Le due protagoniste, Abby e Harper, formano una coppia e decidono
di passare le vacanze con la famiglia di quest’ultima. I genitori di Abby
infatti sono morti, e a lei il Natale non piace particolarmente, per questo
Harper spera di riuscire a farle trascorrere le festività in compagnia, ma c’è
un problema: i genitori di Harper non sanno della sua sessualità, quindi la
ragazza chiede alla fidanzata di mentire e far finta di essere coinquiline.
Come tutti i film natalizi, gli sketch comici
non mancano, e il lieto fine è assicurato, ma ci sono anche scene in cui si
parla realisticamente delle difficoltà del fare coming out e capire la propria
sessualità. Mais mes amis, se la
trama è un remake del solito film natalizio, il messaggio va ben oltre, e mira
a far riflettere e comprendere.
Interpreti delle due protagoniste sono Kristen
Stewart -la Bella di “Twilight”- e Mackenzie Davis -di recente ha preso parte
al film “Terminator: Destino Oscuro”. La scelta del cast non è un caso: da
quando ha fatto coming out in diretta a Saturday Night Live nel 2017, la
Stewart si è impegnata a favore della comunità LGBTQ+, e questo film ne è
l’ennesimo esempio.
A dirigere le due attrici in questa commedia
natalizia c’è Clea DuVall, nota attrice che ha fatto la comparsa in diverse
serie TV e partecipato a vari film, come ad esempio “Argo”. Ha iniziato da poco
la carriera da regista, e “Non ti presento i miei” è la sua seconda esperienza
dietro la cinepresa. Il film negli USA è uscito durante la settimana del
Ringraziamento, e la DuVall si è subito esposta a favore della comunità LGBTQ+
dichiarando anche di essere contenta di rompere con i tradizionali film
natalizi.
Donc mes
amis, “Non ti presento i miei” rompe davvero con i
classici natalizi? La trama, come ho già accennato, riprende il classico
incontro familiare durante Natale, con sketch comici al limite
dell’inverosimile, e la novità di certo non risiede nel film stesso. Se avete
un animo Grinch, non sopportate il Natale, o tutto ciò che vi è commercialmente
legato, di sicuro questo film non fa per voi. Se invece vi divertite ogni anno
a rispolverare la videocassetta di “Una poltrona per due” o “Mamma ho perso
l’aereo”, sperando di trovare altri nuovi film natalizi che non siano
Cinepanettoni, allora questo film potrebbe essere quello che fa per voi.
E ricordate mes amis, il messaggio e la profondità con cui la regista affronta
il tema della sessualità è ciò che rende imperdibile questo film. Distribuito
da Hulu, una piattaforma americana a pagamento di streaming online, in Italia
“Non ti presento i miei” è stato diffuso in anteprima il 6 Dicembre su Sky On
Demand, e a breve sarà disponibile anche su NowTV. Quindi preparate il pandoro
-o il panettone- e una cioccolata calda, mettetevi comodi sotto il plaid e
godetevi questo Natale -diverso dal solito-.
Hello there, cuties! Oggi parliamo di un libro che forse in
pochi conoscono, ma che credo valga davvero la pena leggere, soprattutto se
siete curiosi o appassionati di culture altre
e volete volare a Pechino, sorvolare Parigi e poi arrivare nella nostra
Roma, la magica caput mundi, che non
smette mai di esercitare il suo fascino!
Sooooo, mettetevi comodi, si decolla!
“La strada per Roma” è un libro del 2009 che rientra nel
genere autobiografico, frutto della penna di Hu Lanbo, la direttrice della
rivista bilingue “Cina in Italia” (che ha sede proprio a Roma), imprenditrice e
giornalista.
In sole 228 pagine, Hu Lanbo riesce senza il minimo sforzo,
a farci attraversare il globo conducendoci insieme a lei, partendo dal “rosso
delle mura della città proibita, il grigio dei vicoli della città vecchia, il
mare di biciclette nelle strade” di Pechino.
Il suo viaggio parte proprio dalla capitale cinese, in cui
incontriamo una giovanissima Lanbo alle prese con i risvolti della Rivoluzione
Culturale di Mao Zedong e la testa stracolma di sogni e speranze per il suo
futuro, che la conduce per motivi di studio, nella romantica Parigi, dove i
suoi passi diventeranno sempre più sicuri e i suoi occhi sempre più aperti
all’Occidente, cambiandole il cuore per sempre.
Come diceva Hemingway:
“Se hai la fortuna di vivere a Parigi la tua gioventù, Parigi ti seguirà per
tutta la vita”.
Nonostante i sogni e la voglia irrefrenabile di conoscere e
scoprire il mondo siano il suo carburante, non le mancano certo i momenti di
nostalgia, come l’incertezza di aver sbagliato strada e la sensazione di non
essere compresa per i suoi occhi a mandorla, ma lungo il cammino, incontrerà
anime buone che faranno un pezzo di tragitto con lei, così che anche uno
sconosciuto le dimostri la bellezza dello scoprire l’altro senza preconcetti, e
così facendo, anche se stessa.
“ I miei occhi
ricevevano quotidianamente nuovi stimoli e mi sembrava di assimilare giorno
dopo giorno il gusto per l’arte e la moda che riempivano l’aria di Parigi, mi
sentivo in continuo fermento d’idee ed impressioni, e contemporaneamente in
continua maturazione.”
Tra una stretta di mano e un’occhiataccia, Lanbo diverrà la
donna forte ed indipendente che è oggi, e riconoscendo il suo stesso valore
verrà notata da gente dal cuore grande almeno quanto il suo, fino a quando il
signor Tenti, esploratore e produttore televisivo italiano, le proporrà
un’impresa epocale: il Raid Pechino –
Parigi,percorso dall’Itala, la Fiat che scortata da altri 9 mezzi avrebbe percorso 22.000 chilometri in tre
paesi, in tre mesi, con la nostra Lanbo come reporter per la Rai!
Niente le sarà regalato o scivolerà via come l’olio, ma
l’obiettivo della sua macchina fotografica le permetterà di farsi strada nei
meandri delle città e dei piccoli villaggi sperduti che visiterà, realizzando
passo dopo passo la meravigliosa forza della natura e la prismatica bellezza
del cuore di ogni viaggiatore.
Attraverso la Cina, l’Iran, la Russia, la Polonia, Parigi e
infine Roma, in tutte le tappe del suo cammino, Lanbo trova il coraggio di fare
la cosa più difficile eppure più necessaria: scommettere su stessa, anche a
costo di farsi un pezzo di strada da sola, trovarsi in città sconosciute senza
nessuno che conosca, tuttavia trovare sempre il modo di ritrovarsi in una risata amica, in un caffè con dei
nuovi visi, in una nuova vita, che però ha scelto lei per sè.
“La Francia in quegli
anni mi aveva accolto, una studentessa che veniva da un Paese povero e lontano,
abbracciandomi con la sua umanità: io nel suo abbraccio sentivo calore e
affetto.”
Lei ci insegna che lo stesso coraggio di fare il primo passo
e andare un po’ oltre il selciato già tracciato, è la carta vincente, sempre.
Così infatti nascerà il suo progetto più ambizioso e di
successo: la rivista Cina in Italia,
che è diventato “il primo media
realizzato da cinesi entrato nelle edicole italiane”, una rivista bilingue
che presenta anche il lato meno conosciuto della Cina, quello accogliente,
positivo e ricco di tradizioni e dalla storia millenaria.
Hu Lanbo racconta sì la sua esperienza di emigrata cinese in
un Occidente ancora un po’ controverso e diffidente, ma la parte della sua
storia che lascia il segno è proprio il suo testardo coraggio.
Il coraggio ostinato di insistere sulla sua strada, anche se
ogni tanto come tutti noi cade, si sbuccia un ginocchio, sente il gelo nel
cuore per la nostalgia del vialetto di casa, teme di essere la donna sbagliata
nel posto sbagliato, ma lei va avanti, la sua dedizione è proprio quello che la
salva, le permette di trovare il suo posto anche dove un posto per lei
inizialmente non c’è, continua stremata la sua corsa e alla fine vince, ma il
suo premio è la libertà, di essere se stessa e piantarsi lì, dove ha tutto il
diritto di stare.
Mes amis, bentornati nella nostra rubrica
#ReceUstioni, come avrete notato questa settimana è interamente dedicata alle
donne, in vista del 25 Novembre, giornata internazionale contro la violenza
sulle donne… Donc mes amis
protagonista della recensione di oggi è un libro pilastro del femminismo, di
un’autrice considerata l’ispiratrice del movimento femminista, je parle de “Una
stanza tutta per sé” di Virginia Woolf.
Vi
starete forse chiedendo perché abbia scelto un classico da recensire, e non mi
sia invece concentrata su nuove autrici, o qualche fumettista, regista, film… Bien mes amis, l’ho fatto perché penso
che sia un saggio spesso sottovalutato durante anni scolastici, trattato con
superficialità – se studiato. Vorrei riuscire a convincervi ad intraprendere questa
lettura adesso, con le conoscenze e la consapevolezza che avete acquisito
maturando durante il percorso universitario.
“Una
stanza tutta per sé” è un saggio pubblicato nel 1929, ispirato a due conferenze
universitarie che la Woolf ha fatto nel 1928
al Newnham College e al Girton College, due college femminili
dell’Università di Cambridge – ad oggi solo il Newnham è ancora una scuola
femminile. Virginia Woolf infatti era un nome famoso: fondatrice del gruppo di
artisti Bloomsbury Group, composto dall’élite londinese dell’epoca che voleva
rompere con le rigide norme sociali dell’epoca vittoriana, la giovane
scrittrice emerge soprattutto grazie alla tecnica del flusso di coscienza, adoperata nelle sue opere.
Virginia
Woolf prese attivamente parte al movimento delle suffragette, e il saggio “Una stanza tutta per sé” la consolidò
come una delle fautrici del femminismo. Il libro è una riflessione dell’autrice
sul ruolo delle donne nella letteratura, e più ampiamente sulla condizione
delle donne nella società.
E’
un saggio che va letto con attenzione, per afferrare tutte le sfumature, le
immagini che la Woolf cerca di evocare, e le citazioni. A chi mastica
l’inglese, consiglierei di leggerlo nella lingua originale, e non perché i
traduttori delle varie edizioni italiane non abbiano fatto un buon lavoro, ma
semplicemente perché leggerlo in inglese permette di cogliere lo stile di
scrittura della Woolf e di capire meglio i vari riferimenti. A tal proposito mes amis, vi invito a leggere anche le
note a pié di pagina, che spiegano tutti i riferimenti letterari e culturali
usati dalla Woolf nel suo saggio, affinché possiate immergervi nella sua epoca,
facendo un tuffo nel passato, e al contempo imparare qualcosa di nuovo.
Le
riflessioni di Virginia Woolf hanno qualcosa di straordinariamente
contemporaneo, nonostante risalgano ad un secolo fa. Ad alcuni forse non
sembrerebbe nemmeno così lontano, siamo negli anni ‘30 del ‘900, ma la
differenza abissale tra la società odierna e quella dell’epoca odierna è
lampante, ancor più se si pensa alla condizione delle donne: in Inghilterra il
voto alle donne fu concesso solo nel 1928, l’anno stesso in cui la Woolf fece i
suoi interventi.
Le
riflessioni dell’autrice attraversano la storia delle scrittrici inglesi,
passando per Jane Austen, le sorelle Brontë e George Eliot, solo per citarne alcune. Il quesito che la
attanaglia, e che la spinge a fare queste riflessioni sul ruolo delle donne
nella letteratura, è una domanda schietta: perché prima del Seicento non
troviamo grandi scrittrici? Ma soprattutto, come può una donna diventare
scrittrice? E la risposta è altrettanto diretta: “una donna, se vuole scrivere
romanzi, deve avere soldi e una stanza per sé, una stanza propria”,
afferma la Woolf nel suo saggio. Il significato della frase è da riscoprire nel
saggio stesso, e leggendo il libro si comprende realmente a cosa fa riferimento
l’autrice, perché se letta così può sembrare lapalissiana, ma il ragionamento
che c’è dietro è spaventosamente vero, reale, concreto, e si riflette anche
nella società odierna.
Se
non l’avete mai letto, vi consiglio di cuore questo saggio, perché vi
arricchisce su più livelli: linguistico, letterario, intellettuale e sociale.
Perdetevi con la Woolf nei suoi ragionamenti, immaginate le vite delle donne
citate da lei, e soprattutto seguite il suo consiglio: non abbiate paura di
scrivere (o parlare, o fare qualsiasi altra cosa) solo perché siete donne.
Anzi, fatelo proprio perché lo siete.