Niente ci accarezza di più il respiro delle grandi storie d’amore immortalate nella forma del romanzo. Freud asseriva che la nostra vita psichica è tanto più sana quanto più si ama e si è contraccambiati, e il romanzo ci permette di acuire quella riposta intelligente che si spera sia in noi, tanto più se la storia e i suoi attori ci invitano a intraprendere quel viaggio iniziatico che è l’eros.

Il romanzo di cui tenterei un sobrissima esposizione tratta proprio di un viaggio: geografico, tecno-assistito, escatologico, o più ancora psichico (mentale… detto tra noi, sa di bimbominkia) se vogliamo. Un intinerium mentis alla Alighieri, to’! Tuttavia, il titolo potrebbe trarre in inganno: sì perché In un amore felice, sulle prime darebbe l’impressione di un accostamento mal riuscito di due parole che, soprattutto ai più schifiltosi di noi, fanno sanguinare le orecchie… ma nient’altro che una mera impressione.

L’opera, edita da Adelphi, è una delle ultime fatiche letterarie di Guido Ceronetti, squisito poeta e scrittore italiano, nonché teatrante e autore di formidabili traduzioni di testi biblici e non solo. Una figura, quella di Ceronetti, poco gloriata negli spazi ristretti in cui la letteratura si affaccia ai più, eppure notevole suonatore di spariti letterari degni delle sale da concerto del XIX secolo.

Quella da lui evocata nel romanzo è un’epopea leggendaria che vede protagonisti due anonime figure umane, un uomo e una donna che, data la loro numerosa differenza d’età, apparirebbero come coppia piuttosto improbabile negli scenari quotidiani, eccetto là dove si staglia l’odore di meschini interessi. Sui due grava l’oscuro presagio di un’invasione aliena che, lungi da rasentare il ridicolo sproloquio ufologico a stelle e strisce, l’autore mutua dai primissimi testi biblici del Genesi. Sullo sfondo, un’Italia ancora vergine delle grandi avventure industriali (quella delle lucciole assai cara a Pasolini), con brevi soggiorni nella Parigi tanto elogiata come pure bistrattata dagli autori del Novecento, una Washington burocratica, già votata al controllo del mondo e una Puerto Rico esotica ed edenica. In questo spazio epico, accompagnati da un mitico carrozzone di comprimari e illustri comparse (da Orson Welles, a Robert Capa, e a Louis Ferdinand Celine per termine con Nicola Tesla nella veste di padrino dei protagonisti) i due attori si muovono, come anime spaurite, nel tentativo di salvare l’umanità da una minaccia ignota e imperscrutabile.

L’imminenza dell’apocalisse suggella intimamente il legame tra i due sventurati, lui vecchio fotografo di guerra segnato dal tempo e dai dolori e lei molto più giovane, ma nondimeno lacerata dalla lame della vita. È un amore, quello dipinto da Ceronetti, vissuto ascoltando tutti i suoi echi, dai più lugubri rantoli della gelosia, ai sospiri suadenti della voluttà, fino agli accenti di quella philia che i filosofi antichi indicavano come la forza cosmica che spinge in armonica unità gli elementi.

L’escamotage fantascientifico degli alieni è rara metafora di quell’altro, che noi figli della post-modernità (o modernità posticcia?) siamo soliti interpretare come l’anelito di quei romantici fiaccati dalla storia o come entità che ci lusinga fin quando è accomodante. Lo stesso autore, nella lettera rivolta al suo pubblico posta in esergo al testo, fa ammissione di un inappagato bisogno di Trascendenza che sarebbe errato confondere con un desiderio combattuto di conversione religiosa. Un tentativo terreno di colmare l’abisso, semmai.

Nel “depauperamento generale del Numinoso”, Ceronetti ci spinge ad esercitarci al mistero, all’indistinto, al silenzio o, se non altro, alla voce leggera che si appoggia sulle nostri menti. E visto l’avvicinarsi del Natale, quale eventi più misterioso della venuta di Cristo?

Nel leggere il romanzo (il che vi invito a fare, anche solo per solcare uno stream tutt’altro che main, piatto, semmai appena sgorgato dalla fonte) non diffidate per lo stile a tratti ‘ipercolto’ o per la sofisticata irrealtà che sembri vi stia propinando: l’autore affida al romanzo un aspetto che esalti il suo essere maestro di lingue colte e storie arcane.
Nel tentativo di celebrare il suo legame durevole col verso e l’aforisma, Ceronetti non museifica la prosa, anzi è proprio dall’unione di queste dimensioni che scaturisce un pastiche linguistico di vivente raffinatezza, che riempie un vuoto stilistico.

In tempi in cui ogni cosa la si osanna su schermi angusti e artificiosi, In un amore felice ci consegna in mano una bussola per orientarci nello spazio intergalattico di gioia e dolore, soffuso di naturale luce solare.

Amore è l’essenza perenne di tutte le creature, ma se non è congiunto a dolore non può ritenersi perfetto. Agli angeli fu dato amore, non dolore; il dolore non si addice che all’uomo.”
Farid ad-Din Attar

Buone feste e buon inizio anno!

Livio D’Alessio