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Mai vista tanta neve!

La prima nevicata d’inverno è arrivata con largo anticipo quest’anno. E così, un fiocco dietro l’altro, ci è sembrato subito Natale, perché niente contribuisce a creare quell’atmosfera natalizia che tutti amano come la neve, che ci regala emozioni spesso difficili da descrivere a parole. Eppure pensate che, in alcune lingue, esistono tantissime parole per descrivere la neve. Alcune credenze popolari supportate da studi scientifici attribuiscono alle lingue inuit un vasto repertorio di vocaboli che descriverebbero la neve a seconda delle sue caratteristiche.

Le lingue inuit costituiscono un vero e proprio continuum di varietà appartenenti alla famiglia delle lingue eschimo-aleutine, diffuse in Alaska, Canada e Groenlandia. È difficile stabilire il numero di parlanti ma, stando alle stime dei censimenti effettuati, il numero di parlanti nativi ammonterebbe a 50.000 in Groenlandia, 30.000 in Canada e soltanto 3.000 in Alaska.

Le varietà appartenenti a questa famiglia linguistica sono polisintetiche, formano cioè parole complesse (e lunghissime) aggiungendo degli affissi descrittivi, che possono modificare le proprietà sintattiche e semantiche della parola di base o aggiungere significati più specifici. A differenza delle lingue agglutinanti, come il giapponese, che conservano una sola radice lessicale per ogni parola, nelle lingue polisintetiche in una stessa parola si possono trovare due o anche più radici lessicali. Una singola parola in lingua inuit è talmente complessa che per tradurla in altri idiomi dovremmo ricorrere a perifrasi o persino frasi intere!

Per esempio, “non mi sento molto bene” corrisponde, in inuktitut, a una singola parola, tusaatsiarunnanngittualuujunga. Allo stesso tempo, iktsuarpok indica il presentimento che stia arrivando qualcuno e il successivo uscire di casa per verificare questa sensazione, mentre salagok si riferisce al ghiaccio di colore scuro appena formatosi.

Negli anni ’70 l’antropologo britannico Hugh Brody condusse un’indagine etnolinguistica presso le popolazioni inuit in Canada. Brody visse con gli inuit e imparò due delle loro lingue, pubblicando in seguito un volume intitolato The People’s Land, Inuit and Whites in the Eastern Arctic. Secondo l’antropologo, nelle lingue Inuit esistono molte parole per descrivere le diverse forme e condizioni della neve: la neve che scende, quella che annuncia la fine della bella stagione, quella fresca appena caduta, la neve dura e cristallina, quella che si è sciolta e poi ricongelata, la neve su cui è piovuto sopra, quella trasportata dal vento, la neve fusa per essere bevuta e la neve più adatta a costruire gli igloo. In inuktitut, una delle lingue ufficiali del Nunavut, il territorio più vasto del Canada settentrionale, esistono anche molti verbi che contengono la radice “neve” e che traducono espressioni come “scrollarsi la neve di dosso” o “mettere un po’ di neve in una bevanda calda per raffreddarla”.

Dal punto di vista etnolinguistico, la lingua riflette il modo in cui i parlanti categorizzano la realtà e appongono delle etichette a ciò che li circonda. Lingua e cultura si influenzano quindi a vicenda: le lingue eschimo-aleutine distinguono numerose varietà di neve e di ghiaccio in quanto il linguaggio riflette l’universo di riferimento culturale di popolazioni abituate da secoli a coesistere con quei fenomeni atmosferici. I popoli inuit scelgono le rotte delle slitte, cercano i luoghi più adatti a costruire le case, sfruttano le superfici più sicure per camminare o passarvi con le slitte, devono saper prevedere i fenomeni meteorologici e adeguarsi ai loro cambiamenti repentini. Saper descrivere accuratamente la neve può quindi determinare il successo o il fallimento di una battuta di caccia.

Ma non è finita qui. Esiste infatti un’altra particolarità linguistica dei popoli inuit: se in quasi tutte le lingue del mondo figura almeno una parola per indicare l’idea di guerra, all’interno del continuum eschimo-aleutino, invece, non esiste nessuna parola per designare la guerra, probabilmente perché la cultura di quelle popolazioni è basata prevalentemente sulla pace, sull’amore per il prossimo e sul totale rispetto della natura e delle sue leggi. Quasi come fosse sempre Natale.

Vanessa Iudicone

FONTI:
https://it.wikipedia.org/wiki/Lingua_inuit#Parole_per_%22neve%22, consultato in data 15/12/2020
http://www.traduzione-testi.com/traduzioni/le-lingue/i-molti-modi-di-chiamare-la-neve-in-inuit.html#:~:text=La%20notizia%20risulta%20estremamente%20interessante,indica%20la%20sostanza%20%E2%80%9Cneve%E2%80%9D, consultato in data 15/12/2020
https://en.wikipedia.org/wiki/Hugh_Brody, consultato in data 15/12/2020
https://www.paroleintraducibili.it/language-list/inuit.html, consultato in data 15/12/2020

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Natale: 5 personaggi che “compaiono” durante le feste nelle diverse parti del mondo

Durante le feste di fine anno, Papá Noel, Santa Claus, San Nicolás, Viejo Pascuero, Father Christmas, SinterklaasoBaba Nöelrappresenta un’unica figuraormai onnipresente in decine di Paesi.

Tuttavia, ci sono luoghi in cui alcuni personaggi rubano il protagonismo al paffuto anziano che rende felici tutti i bambini del mondo. Alcuni di questi personaggi, o creature alternative, che dir si voglia, allegrano le feste, mentre altre non consegnano regali né portano felicità alle famiglie, anzi. Si dice che hanno il compito di terrorizzare chiunque incontrino nel loro cammino. Specialmente i più piccini.

1. KRAMPUS

È una specie di capra-demonio, ha una lingua molto lunga e appuntita e appare ogni fine anno in Austria, in Germania, nella Repubblica Ceca, in Slovenia, in Svizzera, in Croazia, in Ungheria e in alcune parti dell’Olanda, ma non per portare i saluti di Natale. La sua funzione è punire e mettere in un sacco tutti i bambini che si sono comportati male durante l’anno, per colpirli con i rami degli alberi o per mangiarli. È una controparte malvagia di Babbo Natale.

2. JÓLAKÖTTURINN

Conosciuto anche con il nome di Yule Cat, gatto del Natale islandese, questo felino è l’animale domestico dei troll islandesi, conosciuti come Grýla e Leppalúði, sono cannibali e hanno 13 figli, conosciuti come Yule Lads, ovvero i bambini del Natale. Quest’ultimi sono molto golosi, amano fare scherzi alle persone e lasciano i regali nelle scarpe dei bambini che, se si sono comportati male, ricevono solamente patate.

Tuttavia, il Jólakötturinn è ancora più crudele: mangia le persone che non indossano o non ricevono vestiti nuovi il giorno di Natale. Questo felino gira per i balconi delle case, affacciandosi alle finestre e controllando i bambini. Per questo viene chiamato “poliziotto della moda”.

3. HOTEIOSHO

Lui non è un personaggio vendicativo, è uno degli dei giapponesi della fortuna. Secondo alcune legende, ha occhi dietro la schiena per osservare i bambini senza che se ne rendano conto, affinché si comportino sempre bene. È raffigurato come un monaco buddista con il ventre rigonfio, vestito con una mantella rossa aperta che lascia intravedere il petto. Secondo la legenda, è stato un vero monaco o sacerdote zen, chiamato a suo tempo Kaishi, tra l’VIII e il IX secolo. Dato che il Natale non si festeggia nell’isola, questo personaggio distribuisce i regali il giorno di Capodanno.

4. TÍO DE NADAL

In Catalogna e in altre zone di Aragona, la tradizione racconta che i regali di Natale per i bambini nascono da un tronco, conosciuto come Tío de Nadal. Per questo motivo, le famiglie sono solite sistemare un tronco in casa all’inizio di dicembre che coprono con una coperta e su cui disegnano occhi e bocca, dandogli da mangiare fino a Natale. In questo giorno i bambini gli dedicano delle canzoni e lo colpiscono con dei bastoni affinché gli dia i regali.

5. OLENTZERO

Nei Paesi Baschi chi consegna i regali è proprio l’Olentzero, un carbonaio che indossa il tipico vestito del paese. È rappresentato come un uomo anziano e paffuto. Si crede che abbia origini nel comune di Lesaka, situato nella comunità autonoma di Navarra.

Francesca Vannoni

Testo tradotto e adattato dall’articolo della BBC MUNDO: https://www.bbc.com/mundo/noticias-50707622, consultato in data 15/12/2020

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Demetrio Túpac Yupanqui, giornalista e professore di 91 anni traduce il Don Chisciotte in lingua quechua

Considerata una delle opere più importanti della letteratura mondiale, il Don Chisciotte della Mancia è un romanzo spagnolo che attinge sia dal genere picaresco sia dal romanzo epico-cavalleresco.

Demetrio Túpac Yupanqui, giornalista e professore di 91 anni, si era incaricato di concluderne la traduzione iniziata una decina di anni fa, quando aveva terminato la traduzione della prima parte del Don Chisciotte (impiegando due anni). Per celebrare il quarto centenario del grande classico, il traduttore ha portato a termine la seconda parte (tradotta anch’essa in due anni).

L’opera si divide in due parti, una pubblicata nel 1605 e una nel 1615.

È grazie a Demetrio che il libro di Cervantes è disponibile a oltre 10 milioni di persone di lingua quechua (in Perù, Bolivia, Argentina, Cile, Ecuador e Colombia).

È questo il titolo in quechua: Yachay sapa wiraqucha dun Qvixote Manchamantan (El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, così come riporta la prima pubblicazione in spagnolo).

Questa invece è l’iconica frase iniziale del libro: Huh kiti, La Mancha llahta sutiyuhpin, mana yuyarina markapi (“in una terra della Mancia, che non voglio ricordare come si chiami”, come riporta la versione italiana).

Don Alonso Quijano, protagonista dell’opera, è un hidalgo, cioè un nobile, che vive nella regione spagnola della Mancia ed è un accanito lettore di romanzi cavallereschi. L’amore per le narrazioni è tale da non fargli più riuscire a distinguere la realtà dalle storie che legge e si convince un giorno di essere lui stesso uno dei cavalieri protagonisti di quelle avventure letterarie.

A suo tempo, dopo aver tradotto la prima parte, il professore ricevette il titolo inca di gran maestro Amauta Capac Apu da parte del Consiglio dei quattro Incas che riunisce i discendenti dell’impero, secondo quanto riporta Perú 21.

La traduzione, di fatto, fu svolta sotto incarico personale da parte di Miguel de la Quadra-Salcedo, giornalista spagnolo, che cercava il maestro del quechua nell’accademia di Callao. “Un giorno è arrivato Miguel e, con accento basco, mi ha detto di essere giunto affinché traducessi il Don Chisciotte perché in alcune regioni come in Argentina e a Cusco gli avevano detto che sarei stato la persona più adatta a tradurlo. Sono rimasto sorpreso, ma gli ho detto che lo avrei fatto con la dedizione che richiedeva un’opera simile”, ricorda il traduttore.

All’età di 57 anni, nel 1605 e dopo una vita piena di spostamenti e di tormenti, Miguel de Cervantes Saavedra scrisse la storia di quello che sarà uno dei più amati e famosi protagonisti della letteratura mondiale: Don Chisciotte della Mancia
A questo nome si collegano alcuni modi di dire conosciuti da tutti. “Lottare contro i mulini a vento”, per esempio, fa riferimento a un episodio del Don Chisciotte e indica la lotta contro una causa persa. È proprio ciò che fa il protagonista per la maggior parte della narrazione.

Marco Riscica

Fonti:
https://www.larepublica.ec/blog/2015/06/28/peruano-de-91-anos-traduce-el-quijote-al-quechua/, consultato in data 07/12/2020.
https://peru21.pe/lima/peruano-91-anos-termino-traducir-quijote-quechua-185956-noticia/, consultato in data 07/12/2020.

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Sarvègguome tes rize ma: salviamo le nostre radici!

In provincia di Reggio Calabria, ai confini del Parco nazionale dell’Aspromonte, sono ancora osservabili le tracce della cultura magno-greca. Tra i panorami mozzafiato del versante ionico dell’Aspromonte, un’area che un tempo era di difficile accesso, sorgono i comuni di Condofuri, Gallicianò, Roccaforte del Greco, Roghu e Bova, dove è ancora possibile sentir parlare una lingua antica, residuo dell’incontro di due popoli e del contatto tra lingue, culture e tradizioni differenti. Per la sua lontananza rispetto alle località frequentate dai turisti e per la precarietà dei collegamenti tra zone costiere e l’entroterra particolarmente impervio, questa zona della Calabria ionica è diventata nel corso dei secoli una delle ultime roccaforti della cultura e della lingua greca in Italia. Fino all’inizio del secolo scorso, la mancanza di strade e infrastrutture percorribili costringeva i paesi dell’area grecofona all’isolamento e spesso all’analfabetismo e alla scarsa conoscenza dell’italiano, un fattore favorevole alla conservazione della lingua autoctona. Oggi nel territorio della Bovesìa sono poche centinaia gli ultimi testimoni di ciò che resta dell’antica civiltà della Magna Grecia e della sua eredità culturale, visibile soprattutto attraverso la lingua.

Il greco di Calabria è un dialetto del greco moderno ufficialmente riconosciuto come minoranza linguistica e rappresenta un caso interessante dal punto di vista sociolinguistico dal momento che si inserisce all’interno del continuum dialettale dei dialetti italo-romanzi, pur essendo un dialetto del neogreco. Infatti, se la “lingua tetto”, ovvero la varietà sovraordinata da cui derivano dialetti italo-romanzi, coincide con la lingua standard della loro regione di diffusione (l’italiano appunto), i due dialetti greco-italioti, il greco di Calabria e il griko salentino, non sono geneticamente imparentati con l’italiano e rappresentano dunque un caso di lingua “senza tetto”, diffusa cioè in una regione la cui lingua sovraordinata non è la varietà standard dalla quale essi derivano. L’Atlante Mondiale delle Lingue in Pericolo dell’UNESCO classifica il greco di Calabria tra le lingue severamente in pericolo: si stima che gli ellenofoni calabresi sarebbero oramai meno di 500, quasi tutti anziani che abitano tra Gallicianò, frazione del comune di Condofuri, Bova e Roghudi.

L’esistenza delle comunità grecofone in Italia è stata a lungo oggetto di studio: è stato ipotizzato che la loro origine sia riconducibile all’immigrazione in epoca medievale di popolazioni ellenofone provenienti dall’Impero bizantino, il che spiegherebbe l’innegabile somiglianza dei dialetti greco-italioti con il greco moderno e la loro parziale intelligibilità. Da studi più recenti è tuttavia emerso che le minoranze ellenofone d’Italia non sarebbero state interessate da migrazioni dalla Grecia continentale in epoca medioevale, vista la mancanza di componenti genetiche balcaniche nella popolazione che abita la Grecìa salentina e l’area della Bovesìa. Ciò conferma quindi l’ipotesi dell’esistenza di comunità ellenofone nella zona dell’antica Magna Grecia sin da tempi più antichi. In effetti, a sostegno di quest’ultima tesi, è interessante notare come il greco di Calabria presenti elementi lessicali derivati dal dialetto dorico, ma assenti nel neogreco, probabilmente dei prestiti dalla lingua dei coloni dorici di Taranto. Una chicca: i due termini èlima e jìis con cui il poeta Esiodo descrive l’aratro dei contadini eretriesi e calcidesi non esistono né nel greco bizantino né in neogreco, ma sopravvivono nel greco di Calabria. I numerosi studi sulla forma, sull’evoluzione e sulle influenze che nel corso del tempo hanno arricchito i due dialetti greco-italioti confermano dunque il loro carattere autoctono e respingono la tesi di un’origine bizantina.

Per proteggere un patrimonio linguistico e culturale che sta velocemente scomparendo, il governo ha approvato la legge 482/1999 in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche, mentre la Regione Calabria si impegna nella tutela delle minoranze greche e promuove l’istruzione bilingue; parallelamente, i comuni di Bova, Bova Marina e Condofuri hanno installato una segnaletica stradale bilingue greco/italiano. Esistono inoltre numerose iniziative culturali promosse da associazioni locali allo scopo di promuovere la diffusione e la tutela del greco di Calabria attraverso l’arte e la musica, come il festival musicale itinerante Paleariza (“Antica Radice”), nato nel 1997 come festival di musica grecanica per creare un’occasione di incontro fra il contesto locale e quello globale.

Sfortunatamente, il progressivo abbandono delle lingue minoritarie sembra inarrestabile ed è dovuto a numerosi fattori, dalle conseguenze della globalizzazione alla stigmatizzazione delle minoranze linguistiche, spesso considerate dei semplici dialetti parlati dai ceti contadini nelle zone rurali, piuttosto che delle lingue a tutti gli effetti che valga la pena imparare. Tuttavia, la salvaguardia del patrimonio di tradizioni e culture del sud Italia passa anche attraverso la tutela delle lingue locali e un cambiamento radicale delle percezioni dei parlanti più giovani. La lingua che ancora oggi si sente parlare da solo poche decine di anziani in provincia di Reggio Calabria è una lingua antichissima, evolutasi in modo indipendente dal greco bizantino e probabilmente parlata già nel VIII secolo a.C., all’epoca della fondazione della città di Krótōn, dove Pitagora creò la sua suola, e di tante altre polis magno greche destinate a conoscere un periodo di intenso splendore artistico e culturale.

Vanessa Iudicone

Fonti:
http://www.unesco.org/languages-atlas/, consultato in data 01/12/2020.
http://www.grecidicalabria.it/, consultato in data 01/12/2020.
https://www.megghy.com/areagrecanica.htm, consultato in data 01/12/2020.
http://www.grecosuditalia.it/, consultato in data 01/12/2020.
https://www.camera.it/parlam/leggi/99482l.htm, consultato in data 01/12/2020.

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La Ley Celaà

Nelle ultime settimane la Spagna è stata profondamente scossa da una nuova legge approvata lo scorso 12 ottobre dal Congresso dei deputati e conosciuta come Ley Celaá. Quali sono i cambiamenti che quest’ultima comporta?

La ministra dell’istruzione spagnola, Isabel Celaá, in un’intervista al quotidiano El País afferma: “La nuova legge sull’istruzione cambia la filosofia in funzione dell’equità, in quanto promuove l’eccellenza in modo che tutti gli studenti possano sviluppare al massimo il loro talento, al di là delle loro condizioni originali. Un bambino può entrare a scuola vulnerabile, ma non possiamo accettare che ne esca nella stessa condizione”.

I punti salienti sono i seguenti:

– l’uso del castigliano come lingua veicolare dell’insegnamento è soppresso e si lascia alle regioni il compito di garantire che i loro studenti ricevano o meno un insegnamento in tale lingua. Inoltre, la legge stabilisce che alla fine della scuola dell’obbligo tutti devono avere una piena conoscenza dello spagnolo e delle lingue co-ufficiali;

– l’inserimento di materie con valori civici ed etici nelle scuole primarie e secondarie, con un’attenzione speciale al rispetto dei diritti umani, dell’infanzia e dell’uguaglianza. Nelle scuole secondarie, inoltre, si studierà il ruolo sociale delle tasse e il sistema fiscale;

– lo sviluppo delle competenze digitali degli alunni in tutte le tappe educative;

– lo sviluppo di un piano di emergenza che punta alla continuità dell’attività didattica in caso di situazioni eccezionali come quella della crisi del COVID-19;

– l’intenzione di affrontare la questione dello sviluppo sostenibile come stabilito nell’Agenda 2030;

– l’insegnamento della religione non è più opzionale, si elimina l’obbligo a frequentare una materia alternativa;

– la volontà di assicurare, nell’ arco di dieci anni, risorse migliori per accogliere nelle scuole alunni con disabilità;

– l’impossibilità sia per i centri pubblici sia per quelli privati di ottenere somme dalle famiglie per ricevere l’educazione gratuita.

Questi sono solamente alcuni dei punti della nuova legge, a cui si sono succedute molte le proteste e altrettanti dibattiti da parte dell’opposizione e della popolazione spagnola, che fa sentire la propria voce postando sui vari social nastri color arancione.

Francesca Vannoni

Fonti:
https://www.antena3.com/noticias/espana/claves-ley-celaa-sus-polemicas-castellano-concertada_202011195fb640421d91b60001a52059.html, consultato in data 23/11/2020.
https://elpais.com/educacion/2020-11-21/isabel-celaa-la-nueva-ley-de-educacion-cambia-una-filosofia-elitista-por-la-equidad.html, consultato in data 23/11/2020.
https://www.agenzianova.com/a/5fba8740a432a6.15842497/3201606/2020-11-22/spagna-ministra-istruzione-nuova-legge-sulla-scuola-ispirata-al-principio-d-equita, consultato in data 23/11/2020.
https://www.antena3.com/noticias/espana/claves-ley-celaa-sus-polemicas-castellano-concertada_202011195fb640421d91b60001a52059.html, consultato in data 23/11/2020

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«SPESSO DICO AI MIEI ARTISTI: AMATEVI», COSÌ RIVELAVA L’ATTORE DI ORIGINE ARMENA ARMEN DŽIGARCHANJAN

È morto il 14 novembre a Mosca, dopo una importante carriera come attore sovietico di origine armena. Armen Džigarchanjannasce il 3 ottobre del 1935 a Erevan e cresce in un ambiente russofono, frequentando una scuola russa e respirando la cultura russa e quella armena allo stesso tempo. Il personaggio ideale per chi desidera immergersi in un contesto multiculturale e un esempio per tutti coloro che, dovendo parlare in pubblico, si sentono un po’ attori nella propria professione.

L’artista popolare è morto lo scorso sabato all’età di 86 anni. Ha interpretato centinaia di ruoli teatrali e cinematografici, lavorando nei film Zdravstvujte, ja vaša tjotja! (in italiano, Buongiorno, sono sua zia!), Mesto vstreči izmenit’ nel’zja (Mai cambiare il luogo dell’incontro)e in Širli-myrli (Che pasticcio).

Nel 1952 Džigarchanjan si diploma e tenta di iscriversi all’Università russa di arti teatrali (GITIS) A. V. Lunačarskij a Mosca, ma non supera il concorso. Come racconta l’attore in diverse interviste, era stata la madre a ispirare in lui il sogno di iscriversi in una delle principali scuole teatrali, quando tornando da Mosca gli aveva portato i volantini del teatro. Quando legge il monologo durante il concorso, un uomo della commissione gli chiede perché si fosse presentato proprio a quel concorso, proponendogli invece l’istituto del Teatro di Erevan. In questo modo torna a Erevan e racconterà successivamente: «Lì ho incontrato il mio grande insegnante: Armen Gulakjan. E se non fossi tornato, chissà come sarebbe andata…».

Dopo la triste esperienza con il test universitario, lavora per un anno come assistente operatore nello studio cinematografico Armenfilm. Nel 1954, come gli consigliano, entra nell’Istituto artistico e teatrale di Erevan (l’attuale Istituto Statale di Teatro e Cinema di Erevan) ed è studente dell’artista Gulakjan. Quando è ancora al secondo anno, Džigarchanjan è accolto nella compagnia del teatro drammatico russo di Erevan K. S. Stanislavskij.

«Ricordo molto bene [i primi passi sul palco], come fosse ieri: il 25 gennaio del 1955 salii sul palco del Teatro drammatico Stanislavskij di Erevan con lo spettacolo Ivan Rybakov. Dovevo interpretare questa battuta: “Compagno capitano, ha un messaggio telefonico!” Così avvenne la mia prima apparizione sul palcoscenico, da professionista», condivide durante un’intervista.

«La nostra professione, devo ammetterlo, si basa su una domanda: [quello del personaggio] è un tuo problema o è qualcosa che non ti riguarda? Se io avessi una figlia e l’avessi persa, lavorerei nel ruolo del Re Lear. Ma non possiamo cercare tra gli attori chi ha davvero strangolato qualcuno per interpretare l’Otello, non è vero? Questo vuol dire che è un’imitazione, ecco tutto», dichiara l’attore.

«Sono un bravo artista e un brav’uomo, direi. E penso che ciò sia molto importante per noi, per gli esseri umani. Devo essere consapevole del fatto che mi amo. Lo dico spesso ai miei artisti, “amatevi”».

Dopo aver scoperto nuove curiosità su questo famoso artista, se ti interessa sapere quali sono alcuni tra i migliori film sovietici, ecco una breve lista:

  • Andrey Rublyov (1966);
  • Stalker (1979);
  • Il racconto dei racconti (1979);
  • Solaris (1972);
  • Va’ e vedi (1985);
  • L’albero dei desideri (1976);
  • Ivan il Terribile (1944);
  • La terra (1930);
  • La corazzata Potemkin (1925);
  • La congiura dei boiardi (1958).

Marco Riscica

Fonti (sitografia):
https://tass.ru/kultura/10003223, consultato in data 17/11/2020.
https://www.kinopoisk.ru/lists/editorial/top_100_russian_by_roskino/?tab=all, consultato in data 17/11/2020.
https://www.nientepopcorn.it/classifiche-, consultato in data 17/11/2020.
film/nazione/migliori-film-russi/, consultato in data 17/11/2020.

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Quando imparare una lingua può salvare una cultura

Proprio come gli esseri viventi, le lingue hanno un loro ciclo di vita: esse nascono, crescono, si diffondono e scompaiono. Negli ultimi anni le numerose iniziative adottate a livello internazionale per la protezione delle lingue minoritarie ha messo in evidenza il problema sempre più diffuso della scomparsa di numerose varietà linguistiche, complici la globalizzazione e gli atteggiamenti linguistici dei parlanti che molto spesso stigmatizzano le varietà locali e conferiscono un maggiore prestigio alle lingue dominanti su scala internazionale. Il rischio è quello di interrompere la catena di trasmissione intergenerazionale: ai bambini viene insegnata una varietà dominante piuttosto che la lingua minoritaria o il dialetto dei genitori, finché il numero complessivo di parlanti di queste ultime si riduce drasticamente. Un’altra possibile causa della scomparsa di una lingua è la messa in atto di una politica di assimilazione promossa da uno Stato a discapito di intere etnie. Una lingua muore con la scomparsa dell’ultimo parlante nativo, che porta via con sé un patrimonio immateriale inestimabile, fatto di usi, costumi, tradizioni, miti e leggende; in altre parole, sono intere culture a scomparire, schiacciate sotto il peso della globalizzazione e dell’omologazione linguistica e culturale. Oggi nel mondo esistono 7.117 lingue, 2.926 delle quali classificate come lingue in pericolo o in via di estinzione, mentre si stima che nel 2050 circa il 90% delle varietà parlate attualmente saranno estinte.

Per proteggere le lingue a rischio di estinzione è fondamentale riconoscere il valore insostituibile delle testimonianze dei parlanti nativi, soprattutto i più anziani, che diventano veri e propri custodi di un tesoro purtroppo destinato a essere dimenticato in mancanza di una politica linguistica adeguata. Oltre a ciò, favorire un processo di codificazione attraverso la pubblicazione di grammatiche e dizionari può aiutare a salvaguardare le lingue minoritarie, che in passato affidavano la trasmissione intergenerazionale alla sola tradizione orale.

Marie Wilcox, classe 1933, è l’ultima parlante di Wukchumni, una lingua amerindiana della famiglia yokuts, una volta diffusa nelle regioni del centro-sud dell’attuale California e oggi classificata ufficialmente come “lingua moribonda” dall’Expanded Graded Intergenerational Disruption Scale, che stabilisce un insieme di parametri per misurare il grado di vitalità di una lingua. La tribù Wukchumni, parte della comunità Yokuts di nativi americani, non è mai stata riconosciuta ufficialmente dal governo statunitense. Prima dell’arrivo dei coloni europei nel continente americano si stima che i membri della tribù fossero circa 50.000; a oggi restano in vita solo 200 persone che si identificano come Wukchumni. “Quando ero piccola parlavo inglese, non ricordo mia madre parlare nella nostra lingua” – racconta Marie – “Ma quando mia sorella ha iniziato a insegnare ai suoi bambini il Wukchumni, ho capito di voler ricominciare a parlare la nostra lingua”. Giorno dopo giorno, per sette anni, Marie cerca di ricostruire il lessico andato quasi perduto del Wukchumni, lavorando tutti i giorni al suo progetto. Preservare la lingua della sua gente, e con essa le sue tradizioni, diventa una vera e propria missione. Esistono culture in cui le storie e il vissuto delle famiglie si intrecciano le une alle altre attraverso la lingua e, quando le lingue scompaiono, le persone perdono quel legame speciale; salvaguardare la lingua è quindi un modo per mantenere quel filo invisibile che lega i membri di una stessa comunità.
Nel 2014, grazie alla dedizione di Marie e di sua figlia, viene pubblicato il primo vocabolario della lingua Wukchumni, uno strumento prezioso per la sua rivitalizzazione e per la riscoperta delle antiche tradizioni della tribù. Dopo aver insegnato la lingua a sua figlia e sua nipote, Marie Wilcox oggi organizza corsi settimanali di lingua Wukchumni per i bambini della sua tribù e gira l’America per sensibilizzare i giovani sull’importanza di salvaguardare il patrimonio linguistico e culturale, sempre più minacciato nell’era della globalizzazione. Claire McGowan, insegnante di una scuola in Ohio, commenta così l’impatto che le parole di Marie hanno avuto sui suoi studenti: “Marie ha aperto gli occhi ai miei studenti su quanto una lingua possa essere importante per preservare – o distruggere – intere culture”.

Vanessa Iudicone

Fonti:
https://www.ethnologue.com/endangered-languages, consultato in data 10/11/2020.
https://www.globalonenessproject.org/library/films/maries-dictionary, consultato in data 10/11/2020.

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El día de los muertos

Le macabre tonalità del nostro Halloween si scontrano con i colori sgargianti e vivaci del Día de los muertos, il giorno dei morti, una delle ricorrenze più sentite del Messico, che celebra un inno alla vita ricordando i cari che non ci sono più. La ricorrenza affonda le proprie radici nell’età preispanica, ai tempi degli Aztechi e dei Maya, i quali ritenevano che l’ordine cosmico si basasse su un continuo alternarsi di vita e morte, non credevano né all’inferno né al paradiso, bensì credevano che le anime prendessero strade diverse a seconda del tipo di passaggio che a loro spettava una volta entrati nel regno dei morti.

Sicuramente ne avrete sentito parlare, soprattutto dopo aver visto Coco, l’avvincente film d’animazione Disney Pixar uscito in tutte le sale cinematografiche italiane nel 2017. “Essere dimenticati è un po’ come morire”, questo è il messaggio che ci lascia l’avvincente storia del piccolo Miguel, catapultandoci in una realtà diversa e mostrando la morte da un punto di vista decisamente insolito e curioso, a cui non siamo abituati. Coco ci porta in Messico, nel bel mezzo dei preparativi per il Día de los muertos, giorno in cui i defunti possono raggiungere i parenti vivi attraverso dei varchi posti tra la vita e la morte rappresentati dalle ofrendas, gli appositi altari di commemorazione che hanno lo scopo di accogliere gli spiriti nel regno dei vivi. Nelle ofredas, quindi, sono immancabili le foto dei defunti, fondamentali in quanto senza di esse i cari non possono tornare sulla terra di vivi. Non mancano poi i piatti tipici di questa festa, come il pan de muertos, un pane cosparso di zucchero, anice e di forma simile alle ossa di un teschio, fagioli, riso, i tipici involtini chiamati tamales, candele, fiori, calaveras, ovvero i teschi zuccherati, bicchieri d’acqua affinché i cari possano rifocillarsi dopo il lungo viaggio e sale, simbolo di protezione e purificazione.

Anche gli elementi decorativi hanno un significato ben preciso, per esempio, nel loro ritorno verso casa, i defunti sono guidati dalla scia profumata dei fiori di calendula i cui petali sono cosparsi per tutta la città. A ciò si aggiunge il papado picado costituito da strati di carta traforati a forma di scheletro che rappresentano il vento e la fragilità della vita umana, la cui scelta cromatica (giallo e viola) non è casuale poiché indica il contrasto tra la vita e la morte. Ma il simbolo per eccellenza è la calavera, ovvero i teschi che ci ricordano che la morte è viva, è inevitabile e non deve essere temuta, ma celebrata, ricordandoci di vivere ogni momento come se fosse l’ultimo.

Maschere da teschio, colori sgargianti perfino nei cimiteri, sfilate da brividi, musica per le strade e celebrazioni che vanno avanti per ore: il Día de los muertos è dal 2008 patrimonio immateriale UNESCO e rappresenta, infatti, una delle più antiche espressioni culturali di un popolo che celebra gli antenati, affermando la sua identità e le sue origini, attirando ogni anno milioni di turisti. I festeggiamenti iniziano il 25 ottobre e finiscono intorno al 4 novembre, tuttavia la preparazione è lunga e richiede anche settimane di allestimenti.

Francesca Vannoni

Fonti:

https://www.illibraio.it/news/dautore/coco-709247/, consultato in data 02/11/2020.

https://it.wikipedia.org/wiki/Giorno_dei_morti_(America), consultato in data 02/11/2020.

https://www.vagabondo.net/bramito/perche-andare-in-messico-per-il-giorno-dei-morti-el-dia-de-los-muertos, consultato in data 02/11/2020.

https://www.esquire.com/it/lifestyle/viaggi/a29640413/dia-de-los-muertos-messico/, consultato in data 02/11/2020.

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Il Signore degli Anelli, traduzioni italiane a confronto

Il 30 Ottobre del 2019 è uscita la nuova traduzione del Signore degli Anelli di Tolkien. Abbiamo raccolto pareri, considerazioni, confronti sulla rete per offrirvi una panoramica completa di quali sono stati i criteri delle due traduzioni e quali sono i rispettivi punti di forza e punti deboli.

Presentiamo innanzitutto i due principali protagonisti (per una volta non invisibili): i traduttori.

Vittoria Alliata è stata la prima traduttrice del Signore degli Anelli, libro che affrontò all’età di 15 anni. La sua traduzione de La compagnia dell’anello è stata pubblicata da Astrolabio nel 1967. Tuttavia, questa edizione vendette pochissimo e pochi anni dopo i diritti passarono alla Rusconi. La casa editrice si avvalse della traduzione di Vittoria Alliata, facendola tuttavia revisionare ampiamente da Quirino Principe, prima di pubblicarla nel 1970.

Nei cinquant’anni successivi, l’edizione del Signore degli Anelli sarebbe passata nelle mani della Bompiani e sarebbe stata sottoposta, ciclicamente, a ulteriori piccole revisioni. Quando, nel 1974, era ancora nelle mani della Rusconi l’opera avrebbe subito una revisione in cui si sostituiva la parola gnomo con elfo, per esempio. Invece, nel 2003 Bompiani pubblicherà una nuova edizione con l’aiuto della Società Tolkieniana Italiana, sempre con la traduzione Alliata-Principe, ma in cui erano stati corretti diversi refusi e orchetti veniva sostituito con orchi. Recentemente, la Bompiani ha ingaggiato un traduttore professionista, Ottavio Fatica, per ritradurre Il signore degli anelli.

Molti di voi ricorderanno la famosa poesia dell’Anello, presente anche all’inizio della versione cinematografica di Peter Jackson. Eccone i tre versi finali:

Poesia originale Traduzione Alliata Traduzione Fatica
“One Ring to rule them all.
One Ring to find them,
One Ring to bring them all and in the darkness bind them
In the Land of Mordor where the Shadows lie.”
Un Anello per domarli,
un Anello per trovarli,
Un Anello per ghermirli e nel buio incatenarli,
Nella Terra di Mordor, dove l’Ombra cupa scende.
Un Anello per trovarli,
Uno per vincerli,
Uno per radunarli e al buio avvincerli
Nella Terra di Mordor dove le Ombre si celano.

Nell’insieme, la traduzione della trilogia realizzata da Ottavio Fatica è tendenzialmente più vicina al testo originale rispetto a quella di Vittoria Alliata. Qui, però, si nota una certa libertà nell’inversione dei verbo “trovarli” e “vincerli”. Nonostante si crei un certo effetto da parte del lettore abituato alla versione di Alliata (così come a quello abituato alla versione cinematografica), estraneo alla musicalità della nuova traduzione, possiamo dire che il nuovo poema funzioni.

Allora come mai tanta controversia per la nuova traduzione?

Un aspetto chiave è quello dei nomi. Fatica segue con cura quella che è la Guide to the Names in The Lord of the Rings scritta personalmente da Tolkien per i traduttori.

Quelli che erano Grampasso, Samvise diventano Passolungo e Samplicio. In particolare, rimanendo incuriositi da quest’ultimo cambiamento, potremmo andare all’Appendice F per scoprire il nome hobbit di Sam: Banazîr, che significa half-wise, simple, reso da Tolkien con Samwise rifacendosi all’Anglosassone samwís. Quindi, con Samplicio Fatica riesce a rendere il significato e la sfumatura del nome (rimandando a un personaggio semplice), ma allo stesso tempo lo adatta nella lingua finale così come era desiderio di Tolkien. Al contrario, il nome Samvise della prima traduzione non avrebbe alcun legame con il significato originale e non indurrebbe il lettore a capirlo. Tuttavia, ricordiamo che la versione di Alliata era stata approvata dallo stesso Tolkien, che ne era rimasto soddisfatto.

Tra le scelte contestate ad Alliata da Fatica troviamo quella del “Gaffiere”, soprannome calco dell’originale Gaffer, però inesistente in italiano.

Inoltre, tra le due traduzioni c’è una differenza che si percepisce immediatamente: il registro linguistico. Leggendo la trilogia di Tolkien in lingua originale vediamo che gli hobbit parlano tra loro con un linguaggio molto colloquiale (vedi Sam, che però si sforza di parlare forbito con Frodo e Gandalf, con un risultato comico), ma il linguaggio diventa improvvisamente ricercato quando si rivolgono agli Elfi e così via.

Un esempio, quando nei libri Sam parla con il suo amato cavallino:

Originale Alliata Fatica
Bill, my lad,’ he said, ‘ you oughtn’t have took up with us. You could have stayed here and et the best hay till the new grass comes Bill, ragazzo mio», disse, «hai fatto male a venir con noi. Saresti potuto rimaner qui a masticare il miglior fieno del mondo fin quando spunta l’erba fresca   Bill, ragazzo mio,” disse, “non avresti dovuto metterti con noi. Potevi startene qui a manducare il meglio fieno fino a quando non rispunta l’erba fresca.

La versione di Fatica presenta un Sam giardiniere che parla un linguaggio più basso, senza pretese. Quella di Alliata invece trasmette l’immagine di un Sam colto, elegante.

Per concludere, non c’è dubbio che la traduzione di Alliata abbia offerto agli italiani una trilogia che ricorda il genere cavalleresco, con un registro costantemente elegante e ricercato, un lavoro di altissimo livello (ricordiamo che iniziò a tradurlo quando aveva solo 15 anni). Non siamo sicuri che sia sempre stata la scelta migliore, trovandoci a volte più vicini alla traduzione di Fatica, ma vi lasciamo il beneficio del dubbio.

Una curiosità: ecco i versi della poesia dell’Anello che avete trovato anche all’inizio dell’articolo, scritti nel linguaggio nero, la lingua di Mordor:

«Ash nazg durbatulûk, ash nazg gimbatul,
ash nazg thrakatulûk, agh burzum-ishi krimpatul.»

Nazg si traduce con anello, da qui i Nazgûl (nazg = anello; ûl = spettro).

Marco Riscica

Fonti:

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L’incredibile storia di Richard Simcott

Parlare decine di lingue, saper interagire fluentemente in inglese, finlandese o cinese, imparando (quasi) senza sforzo: è il sogno di ogni studente di lingue. Naturalmente, per la maggior parte degli studenti, ottenere dei risultati richiede grande sforzo e costanza. Ma cosa significa davvero “padroneggiare una lingua, e quante se ne possono imparare?

L’intelligenza umana, si sa, ha un potenziale enorme, ma quello che forse non tutti sanno è che nel mondo esistono delle menti geniali, capaci di far invidia anche ai linguisti più affermati: gli iperpoliglotti. Il termine iperpoliglotta viene introdotto dal linguista Richard Hudson per indicare un individuo che padroneggia almeno undici lingue. Tra gli iperpoliglotti più famosi della storia ricordiamo l’archeologo Heinrich Schliemann, scopritore delle rovine della città di Troia che parlava circa 15 lingue e Ludwig Lejzer Zamenhof, medico e linguista polacco nonché padre dell’esperanto. La domanda sorge spontanea: (iper)poliglotti si nasce o si diventa? Dal punto di vista neurologico, recenti studi hanno aperto nuove possibilità per decifrare i processi cerebrali coinvolti nell’apprendimento linguistico.

È stata ormai appurata l’esistenza del cosiddetto “periodo critico”, ovvero la fase di massima plasticità neurale in cui il bambino riesce ad acquisire una o più lingue in modo inconscio e spontaneo, poiché in età infantile il cervello umano è in grado di sfruttare al massimo le sue potenzialità. Una volta superata questa fase, l’apprendimento rallenta e diventa intenzionale. Non è quindi ben chiaro come sia possibile che gli iperpoliglotti imparino decine di lingue in età adulta.

Il britannico Richard Simcott è ad oggi uno degli iperpoliglotti più famosi al mondo. Nato nel 1977 in Gran Bretagna da una famiglia monolingue, sin da bambino mostra una grande predisposizione per le lingue, arrivando nel corso degli anni a studiarne oltre 50. Oggi ne parla correttamente 30 tra cui turco, polacco, ebraico, cinese, islandese, macedone ed esperanto, mentre dichiara di riuscire a passare per madrelingua in sei di queste.

Studenti di lingue, non disperate! Alla fatidica domanda “Esiste un metodo per imparare le lingue così bene?” Simcott risponde, naturalmente in perfetto italiano, che la cosa più importante è non avere paura di sbagliare. Gli adulti sentono il peso del giudizio altrui, mentre i bambini imparano più velocemente perché non hanno paura dell’errore. Un altro aspetto fondamentale è avere un obiettivo preciso e realizzabile, non memorizzare inutili liste di parole senza contesto, ma piuttosto imparare a dire ciò che si vuole realmente dire.

Per aiutare poliglotti e amanti delle lingue a incontrarsi, qualche anno fa Richard ha dato il via alla Polyglot Conference, un ciclo di conferenze che si svolgono ogni anno in una città diversa del mondo. “Prima di internet e dei social media – si legge sul sito ufficiale – i poliglotti erano creature solitarie che dedicavano moltissimo tempo allo studio per raggiungere un obiettivo che a molti sembrava bizzarro o insensato. Poi è arrivato internet e tutto è cambiato, la distanza non è più un ostacolo e finalmente poliglotti e amanti delle lingue sono riusciti a riunirsi”.

Oggi Simcott vive a Skopje, nella Macedonia del Nord, con la figlia e la moglie, che parla 11 lingue ed era trilingue già a tre anni. In casa Simcott si parlano quotidianamente francese, inglese, spagnolo, tedesco e macedone. In una recente intervista Richard ha dichiarato: “Parlare una lingua significa capire una cultura diversa, è qualcosa di magico”.

Vanessa Iudicone

Fonti

https://multilinguismoprocessineurologici.files.wordpress.com/2015/06/tesi-di-laurea-paola-ferraiuoli.pdf, consultato il 19/10/2020.

https://www.youtube.com/watch?v=MEv0bAeGylI, consultato il 19/10/2020.

https://www.ilpost.it/2018/09/09/iperpoliglotti/, consultato il 19/10/2020.

https://www.sbs.com.au/language/italian/audio/richard-simcott-iperpoliglotta, consultato il 19/10/2020.