#UniversEAT

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MUFFIN ALLA GRICIA

Ciao ragazzi, sono di nuovo io, la vostra Sandra!

Oggi ci trasferiamo sul salato e vi porto una ricetta velocissima e perfetta per assaporare uno dei piatti tipici della cucina romana sotto un’altra forma.

Prima che arrivino commenti del tipo “SACRILEGIOOO LA GRICIA NON SI TOCCAAA!!” vi dico che sono romana anche io e anche che dovete provare per credere!

Bando alle ciance e ciancio alle bande: iniziamo subito!

  • 250g di farina 00
  • 2 uova
  • 200 ml di latte
  • 1 bustina di lievito per salati (sono 16g di solito)
  • 200g di guanciale
  • 60 ml di olio di semi di arachide
  • 30-60g di pecorino grattugiato (io sono andata a occhio e a gusto)
  • 20g di parmigiano grattugiato
  • q.b. di pepe
  • 2g di sale

Ottimo, adesso tutti con le mani in pasta!

  1. In una ciotola bella capiente mettete le uova, il latte, la farina e l’olio di semi;
  2. Mescolate il tutto con una frusta fino a che non vedrete più grumi;
  3. Unite quindi il lievito ed assicurativi sempre che non ci siano grumi;
  4. A questo punto unite il sale, il pepe, il parmigiano, il pecorino e mescolare bene. Assaggiate quello che è venuto e vedete se aggiustare di sapore (ricordatevi che c’è il lievito e che quindi avrà un sapore “strano”);
  5. Per ultimo aggiungete il guanciale e mescolate con un cucchiaio o una spatola in modo da non distruggere i pezzi di guanciale;
  6. Ungete uno stampo per muffin (a me ne sono usciti 10) e versate il composto fino a poco più della metà, non di più perché altrimenti straboccano;
  7. Infornate a 180° per 20 minuti (ricordatevi la prova dello stecchino!!);
  8. Fate intiepidire e togliete dallo stampo le vostre creazioni.

I muffin verranno morbidissimi e il guanciale cotto a puntino (per questo non è stato precotto in padella prima di aggiungerlo al composto).

Siete pronti a pasticciare? 3…2…1… UNINT AI FORNELLI!

Ricordatevi di farci vedere le vostre creazioni, vi aspettiamo!!

Alessandra “Sandra” Alfano

#LOSAPEVATECHE

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Come una pianta d’incenso nell’Orto di Roma può cambiarti la vita

Alle pendici del Gianicolo, attorno al palazzo romano di Villa Corsini nel cuore di rione Trastevere, si trova il bellissimo Orto Botanico di Roma con una varietà straordinaria non solo di vegetazione, ma anche di storie umane. Proprio alla scoperta di una storia di accettazione ed inclusione è dedicata questa tappa nel nostro itinerario tra i luoghi romani, indagando le profonde connessioni con la questione coloniale italiana e le problematiche di tutti i ragazzi di seconda generazione. Siete pronti?

L’orto Botanico di Roma è lo scenario di un interessantissimo racconto – che vi consiglio di leggere – dal titolo “Rapdipunt” dell’autrice italo-somala Ubax Cristina Ali Farah. Nello specifico Rapdipunt è un monologo della protagonista che si rapporta ad un gruppo di adolescenti, tutti maschi di origine africana, ispirati alle vicende della Comitiva Flaminio negli anni ’80 il cui luogo di ritrovo era piazzale Flaminio a Roma. Nel gruppo di ragazzi le difficoltà tipiche dell’età si aggiungono alla questione identitaria e a quella disillusione che si genera fin dalla prima adolescenza riguardo le false promesse sul proprio futuro italiano. Nonostante siano molto giovani, i personaggi sono infatti descritti con serietà e sembrano possedere una forma di scetticismo nei riguardi della realtà che li circonda.

Il racconto di Ali Farah rappresenta una scena di vita quotidiana che si svolge in storici luoghi romani, elementi integranti della crescita e della costruzione identitaria dei ragazzi che appartengono tutti alla seconda generazione, con una perfetta dominanza della lingua e soprattutto del dialetto romano. Nonostante ciò, permane in questi giovani un senso di inadeguatezza e manca il senso di una piena inclusione sul territorio. La coesistenza e l’oscillazione tra due identità diverse nei giovani di seconda generazione – identità non sempre in grado di conciliarsi armonicamente – genera un senso di spaesamento e l’incapacità di sentirsi realmente appartenere agli spazi. L’idea che fatica ancora ad entrare nell’opinione comune è però che la sensibilità nuova di cui si fanno portatori i ragazzi della comitiva consente di avere uno sguardo innovativo sugli spazi.

Uno dei ragazzi di origine somala del racconto – Mauro, nato e cresciuto a Roma – ascolta da un signore incontrato per strada storie e leggende sulla resistenza somala e viene condotti all’Orto Botanico di Roma per vedere una piccola e apparentemente insignificante pianta di incenso tipica ed originaria della Somalia.

Trovare in un luogo così importante per Roma una piccola pianta d’incenso rappresenta per i ragazzi della compagnia la riscoperta di un legame col passato e un parziale radicamento al presente. Quel che emerge infatti continua ad essere la disillusione delle seconde generazioni e l’impatto della rimozione storica sui luoghi, sulle storie personali e sul processo di integrazione; la relazione storica tra Somalia e Italia è in questo caso ineludibile, ma gli stessi ragazzi della compagnia non avvertono più una vicinanza emotiva con gli spazi e con le persone che li abitano.

La pianta di incenso, dunque, e il fatto che sia reperibile nell’Orto Botanico di Roma, sotto gli occhi di tutti ma nello stesso tempo lontana, consente ai ragazzi di recuperare un legame con la terra in cui vivono; un legame che non si limiti ad essere solo geografico – considerando l’Italia come meta prediletta per l’emigrazione, per la sua ubicazione nel Mediterraneo – ma che sia soprattutto un legame storico ed affettivo.

Evelyn De Luca

Fonti

Ubax Cristina, Ali Farah, Rapdipunt, in La letteratura postcoloniale italiana, dalla letteratura d’immigrazione all’incontro con l’altro, a cura di T. Morosetti, numero monografico di “Quaderni del’ ‘900”, IV, 2004.

Caterina, Romeo, Riscrivere la nazione: la letteratura italiana postcoloniale, Le Monnier Università, Firenze, 2018.

#UNINTSpeechPressReview

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L’incredibile storia di Richard Simcott

Parlare decine di lingue, saper interagire fluentemente in inglese, finlandese o cinese, imparando (quasi) senza sforzo: è il sogno di ogni studente di lingue. Naturalmente, per la maggior parte degli studenti, ottenere dei risultati richiede grande sforzo e costanza. Ma cosa significa davvero “padroneggiare una lingua, e quante se ne possono imparare?

L’intelligenza umana, si sa, ha un potenziale enorme, ma quello che forse non tutti sanno è che nel mondo esistono delle menti geniali, capaci di far invidia anche ai linguisti più affermati: gli iperpoliglotti. Il termine iperpoliglotta viene introdotto dal linguista Richard Hudson per indicare un individuo che padroneggia almeno undici lingue. Tra gli iperpoliglotti più famosi della storia ricordiamo l’archeologo Heinrich Schliemann, scopritore delle rovine della città di Troia che parlava circa 15 lingue e Ludwig Lejzer Zamenhof, medico e linguista polacco nonché padre dell’esperanto. La domanda sorge spontanea: (iper)poliglotti si nasce o si diventa? Dal punto di vista neurologico, recenti studi hanno aperto nuove possibilità per decifrare i processi cerebrali coinvolti nell’apprendimento linguistico.

È stata ormai appurata l’esistenza del cosiddetto “periodo critico”, ovvero la fase di massima plasticità neurale in cui il bambino riesce ad acquisire una o più lingue in modo inconscio e spontaneo, poiché in età infantile il cervello umano è in grado di sfruttare al massimo le sue potenzialità. Una volta superata questa fase, l’apprendimento rallenta e diventa intenzionale. Non è quindi ben chiaro come sia possibile che gli iperpoliglotti imparino decine di lingue in età adulta.

Il britannico Richard Simcott è ad oggi uno degli iperpoliglotti più famosi al mondo. Nato nel 1977 in Gran Bretagna da una famiglia monolingue, sin da bambino mostra una grande predisposizione per le lingue, arrivando nel corso degli anni a studiarne oltre 50. Oggi ne parla correttamente 30 tra cui turco, polacco, ebraico, cinese, islandese, macedone ed esperanto, mentre dichiara di riuscire a passare per madrelingua in sei di queste.

Studenti di lingue, non disperate! Alla fatidica domanda “Esiste un metodo per imparare le lingue così bene?” Simcott risponde, naturalmente in perfetto italiano, che la cosa più importante è non avere paura di sbagliare. Gli adulti sentono il peso del giudizio altrui, mentre i bambini imparano più velocemente perché non hanno paura dell’errore. Un altro aspetto fondamentale è avere un obiettivo preciso e realizzabile, non memorizzare inutili liste di parole senza contesto, ma piuttosto imparare a dire ciò che si vuole realmente dire.

Per aiutare poliglotti e amanti delle lingue a incontrarsi, qualche anno fa Richard ha dato il via alla Polyglot Conference, un ciclo di conferenze che si svolgono ogni anno in una città diversa del mondo. “Prima di internet e dei social media – si legge sul sito ufficiale – i poliglotti erano creature solitarie che dedicavano moltissimo tempo allo studio per raggiungere un obiettivo che a molti sembrava bizzarro o insensato. Poi è arrivato internet e tutto è cambiato, la distanza non è più un ostacolo e finalmente poliglotti e amanti delle lingue sono riusciti a riunirsi”.

Oggi Simcott vive a Skopje, nella Macedonia del Nord, con la figlia e la moglie, che parla 11 lingue ed era trilingue già a tre anni. In casa Simcott si parlano quotidianamente francese, inglese, spagnolo, tedesco e macedone. In una recente intervista Richard ha dichiarato: “Parlare una lingua significa capire una cultura diversa, è qualcosa di magico”.

Vanessa Iudicone

Fonti

https://multilinguismoprocessineurologici.files.wordpress.com/2015/06/tesi-di-laurea-paola-ferraiuoli.pdf, consultato il 19/10/2020.

https://www.youtube.com/watch?v=MEv0bAeGylI, consultato il 19/10/2020.

https://www.ilpost.it/2018/09/09/iperpoliglotti/, consultato il 19/10/2020.

https://www.sbs.com.au/language/italian/audio/richard-simcott-iperpoliglotta, consultato il 19/10/2020.

#RECEUSTIONI

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Enola Holmes – Un nome, una garanzia

Enola Holmes è l’adattamento cinematografico dei romanzi di Nancy Springer, “The Enola Holmes Mysteries”, distribuito da Netflix (causa pandemia, sob) dal 23 Settembre 2020.

Protagonista è la brillante, indomabile e ribelle sorellina sedicenne di Mycroft e del leggendario Sherlock Holmes, la cui intelligenza non tarda a regalare agli eroi usciti dalla penna di Arthur Conan Doyle, parecchi grattacapi!

Seppur classificato come genere misto tra Giallo e Avventura, è un vero e proprio viaggio rocambolesco – a tratti esilarante e dolceamaro insieme – in cui non solo vivi le avventure di Enola, ma inizi a pensare come lei, diventi lei.

Impossibile non notare la naturalissima e sbalorditiva capacità di Millie Bobbie Brown (nei panni di Enola herself) di mandare in frantumi la quarta barriera, e catapultarti fin dal primo fotogramma al di là dello schermo, in un perfetto British English, of course.

Lo stesso vale per l’irresistibile charm di Henry Cavill nei panni di Sherlock, il fratello più comprensivo e affine per spirito ed intelletto ad Enola, e per Sam Claflin che interpreta quel borioso di Mycroft, che si fa odiare dal primo all’ultimo secondo, com’è giusto che sia secondo papà Doyle, ndr.

Ma il premio Oscar come personaggio più tosto di tutti (anche da dietro le quinte), va ad Helena Bonham Carter nei panni della mammina scomparsa, che è fisicamente presente quasi solo nei flashback di Enola, ma che ormai è una voce nella sua testa, e come una mano amorevole che tira un filo rosso a sé con indizi qua e là, la guida per tutto il tempo.

Mommy’s love is neverending, right?

Nonostante Enola sia la bifronte di Alone, e all’inizio effettivamente la madre svanisca nel nulla proprio nel giorno del suo sedicesimo compleanno, Enola è tutt’altro che sola nel suo viaggio.

Alone stands for “Alone you’ll muddle through everything”, trust your gut, honey.

È proprio così che Enola trova se stessa cercando la madre, viene fuori come una giovane donna audace e sicura di sè, non si lascia imbrigliare da Mycroft, nè zittire con le raffinate smancerie tipiche delle civette allevate dalla spocchiosa società vittoriana.

Poi come le ha insegnato la mamma, nascondendosi in bella vista proprio nei panni di una lady, si riprende la sua voce, il diritto di scegliere per sé e il suo posto nel mondo.

“Puoi prendere due strade Enola, la tua o quella che gli altri scelgono per te. ”

In tutto ciò non riusciamo a capire perché la mamma sia scomparsa, fin quando non diamo uno sguardo al quadro per intero, cioè lei, come Enola, è una donna nata nell’epoca sbagliata, che se ne infischia delle lunghe gonne merlettate e dà fuoco ai corsetti.

Insegna invece a sua figlia ad osservare, ascoltare, combattere per ciò in cui crede, piuttosto che ricamare.

Una perfetta Giovanna d’arco, una Mary Wollstonecraft di noialtri, una self-made woman con l’unico grande scopo di rendere il mondo un posto migliore, quell’una su un milione disposta a rischiare tutto per fare la differenza, ad uscire dalla cucina e dalla nursery per dimostrare la verità più vecchia del mondo: una donna non vale meno di un uomo, e il suo posto non è certo al guinzaglio di qualcuno, ma in prima fila, nell’avant-garde.

“La scelta è tua, Qualsiasi cosa la società ti dica, non può controllarti.

Mai accontentarti del mondo che hai davanti.

Bisogna fare un po’ di rumore se si vuole essere ascoltati.

Il futuro dipende da noi, essere soli non significa essere solitari, vuol dire trovare il tuo posto nel mondo, il tuo scopo. ”

Al mondo serve un cambiamento, e potresti essere proprio tu, sì, tu in ultima fila!

Worth the hype, isn’t it?

Let me know!

Francesca Nardella

#POLITICAFFÈ

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Ancora un fallimento dell’Occidente in Africa: il Burkina Faso precipita nel caos

Stampa statunitense

Il Burkina Faso, Paese dell’Africa occidentale senza sbocco sul mare, una volta considerato un esempio di successo nella storia degli aiuti militari statunitensi, oggi si trova a fronteggiare un crescente livello di insicurezza dovuta da sempre più frequenti insurrezioni, una crisi umanitaria in atto e un apparato di sicurezza che, anziché proteggere, colpisce i civili. La situazione viene presentata in modo chiaro da The New York Times. Il Burkina Faso ha lottato a lungo con le difficoltà quotidiane tipiche di un Paese posizionato nella regione subsahariana. Infatti, siccità, desertificazione, colonialismo, colpi di Stato, corruzione, povertà e conflitti etnici sono temi costantemente presenti nell’agenda di Governo. Tuttavia, negli ultimi decenni, mentre i conflitti affliggevano diversi Paesi nella regione – come Liberia, Sierra Leone, Costa d’Avorio e Mali –, il Burkina Faso ha rappresentato un fulcro di stabilità. Prima dell’attuale crisi, la capitale era conosciuta anche perché ospita il più grande e prestigioso film festival di tutto il continente africano, Festival Panafricain du Cinéma de Ouagadougou. Per decenni, gli Stati Uniti d’America hanno dimostrato scarso interesse nei confronti di questo Paese oltre all’invio di volontari membri dei Peace Corps e modeste quantità di aiuti umanitari.

In un report sul Burkina Faso Human Rights Watch ha documentato più di 60 uccisioni di civili per mano di Islamisti armati tra la fine del 2017 e l’inizio del 2019 senza includere le 130 uccisioni extragiudiziali delle forze di sicurezza del Burkina Faso avvenute nello stesso periodo di tempo. Queste esecuzioni e altri abusi perpetrati dalle truppe governative hanno avuto luogo in circa 19 occasioni diverse. La direttrice e referente della regione dell’Africa occidentale di Human Rights Watch, Corinne Dufka, ha affermato che non ci sono dubbi circa il fatto che quelle atrocità siano state commesse dai membri delle forze di difesa e sicurezza del Paese. Tra l’altro, il Ministro della Difesa, Chérif Sy, si è rifiutato di rispondere alle ripetute domande circa la sicurezza nazionale.

Alla luce degli eventi appena riportati, il panorama del Paese non sembra prospettare progressi significativi nel futuro prossimo. Che impatto avranno le elezioni presidenziali in Burkina Faso di novembre 2020? Si avranno dei miglioramenti concreti se dovesse cambiare il Presidente?

Stampa inglese

Nell’ultimo decennio il Burkina Faso ha sperimentato una intrinseca fragilità, tanto che l’emergenza umanitaria di questo Paese è diventata tra le più preoccupanti al mondo.

Aumento dei conflitti, insicurezza, governance debole e mancanza di sviluppo sono per The Independent le cause profonde che hanno consentito il rapido deterioramento della situazione. E il sottosegretario generale delle Nazioni Unite Mark Lowcock, ha dichiarato che la condizione allarmante in Burkina Faso, Mali e Niger è il sintomo dell’incapacità di affrontare tutte queste cause di problemi. Lo stato inquietante di questa nazione è dovuto ad alcune problematiche che attanagliano in linea generale, la regione africana del Sahel. Non a caso, un numero record di persone – oltre 13 milioni – necessita di assistenza sanitaria, e tale esigenza è concentrata nelle aree di confine di questi tre Paesi. Peraltro, la maggior parte di loro sono bambini.  

Per comprendere meglio, occorre spiegare che l’insicurezza nella regione del Sahel è iniziata nel 2012 quando un’alleanza di militanti separatisti e islamisti ha preso il controllo del nord del Mali. Da quel momento in poi, le aree centrali e occidentali della regione sono diventate un importante fronte di combattimento nella guerra contro la militanza islamista, a cui hanno partecipato gli statunitensi e gli europei – soprattutto francesi. Tuttavia, dal 2016 la regione del Sahel è stata protagonista di una crescente violenza islamista, perché in quel periodo sono emersi nuovi gruppi armati legati ad al-Qaeda e allo Stato Islamico. Questi militanti hanno approfittato dei confini colabrodo per raccogliere finanziamenti attraverso estorsione e traffico di armi e di esseri umani. Così si sono espansi in Burkina Faso, Mali centrale e Niger. E nell’ultimo periodo si sono verificati diversi scontri tra questi affiliati dello Stato Islamico e di al-Qaeda. In particolare, durante la scorsa primavera, lo Stato Islamico aveva detto di essere stato oggetto di pesanti attacchi da parte del JNIM proprio in Burkina Faso e in Mali. Precisamente, il JNIM è emerso come uno dei rami più letali di al-Qaeda, insieme ad al-Shabab in Somalia – spiega la BBC.

Questa violenza avrebbe raggiunto il suo apice in Burkina Faso nel periodo di tempo compreso tra novembre 2019 e giugno di quest’anno, soprattutto a danno dei civili. Gruppi di decine di cadaveri sono stati trovati legati e bendati lungo le autostrade, sotto i ponti e nei campi – così The Guardian che enuncia un rapporto del Human Rights Watch. Dunque, un Paese trasformato in un campo di sterminio a cielo aperto. In buona sostanza, tale aggressività si è diffusa progressivamente dal nord e dal centro verso l’est del Paese, dove una serie di ripetuti attacchi ha rafforzato l’afflusso degli sfollamenti di massa di migliaia di famiglie.

Sempre il quotidiano britannico, afferma che l’Institute for Economics and Peace (IEP) ha realizzato uno studio secondo cui la crisi climatica e il rapido aumento della popolazione produrranno entro il 2050 un aumento dei flussi migratori verso i Paesi più sviluppati. Il Burkina Faso rientra nella categoria dei Paesi che saranno oggetto di questa fuoriuscita di cittadini, proprio per la combinazione tra alto rischio per le minacce ecologiche e crescita degli abitanti.  

Tralasciando i disastri naturali, su tale crisi umanitaria pesano anche le responsabilità dei Paesi occidentali, il cui marcato interventismo ha finito per esacerbare alcune vicende. Per esempio, le operazioni di Francia e Stati Uniti hanno contribuito a indirizzare i militanti di al-Qaeda verso i confini del Burkina Faso.   

Chiara Aveni e Gaia Natarelli

Fonti

Climate crisis could displace 1.2bn people by 2050, report warns disponibile su https://www.theguardian.com/environment/2020/sep/09/climate-crisis-could-displace-12bn-people-by-2050-report-warns, consultato il 21/10/2020

At least 180 civilians killed in Burkina Faso town, says rights group disponibile su https://www.theguardian.com/world/2020/jul/09/at-least-civilians-killed-burkina-faso-town-says-rights-group, consultato il 21/10/2020

Africa’s Sahel becomes latest al-Qaeda-IS battleground disponibile su https://www.bbc.com/news/world-africa-52614579, consultato il 21/10/2020

France summit: Macron and Sahel partners step up jihadist fight disponibile su https://www.bbc.com/news/world-africa-51100511, consultato il 21/10/2020

UN hopes meeting will raise $1 billion for key Sahel nations disponibile su https://www.independent.co.uk/news/un-hopes-meeting-will-raise-1-billion-for-key-sahel-nations-sahel-mark-lowcock-countries-un-nations-b1142756.html, consultato il 21/10/2020

How One of the Most Stable Nations in West Africa Descended Into Mayhem, disponibile su https://www.nytimes.com/2020/10/15/magazine/burkina-faso-terrorism-united-states.html, consultato il 20/10/2020

Burkina Faso: Residents’ Accounts Point to Mass Executions, disponibile su https://www.hrw.org/news/2020/07/08/burkina-faso-residents-accounts-point-mass-executions, consultato il 20/10/2020

#UNIVERSEAT

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Ed eccoci con un nuovo appuntamento di #UniversEat!!

Ogni volta che mi presento, dato il mio cognome Cossu e, forse, i miei lineamenti, la prima domanda che mi viene fatta è “Sei sarda?”.

Le mie origini, a quanto pare, sono evidenti e, proprio per questo motivo, oggi ho deciso di stupirvi con un piatto tipico della suddetta tradizione: le seadas, un tempo definite mannas cantu su prattu, ossia “grandi quanto il piatto” in cui venivano servite. Oggi la dimensione è stata ridefinita, pur rimanendo il gusto sempre lo stesso.

Ingredienti per sei persone:

  • 300 g di farina (è consigliata quella di grano duro ma io ho usato la 00 che avevo in casa);
  • 30 g di strutto;
  • 100 ml di acqua tiepida;
  • Pasta fresca di dolce sardo q.b. (formaggio tipico sardo);
  • Scorza di limone e/o arancia grattugiata;
  • 1 albume;
  • Miele q.b.;
  • Olio per friggere q.b.;
  • Coppapasta di due misure (generalmente il più grande da 9 cm).

Ora che abbiamo tutto l’occorrente, mettiamo le mani in pasta!

Per prima cosa, uniamo lo strutto e l’acqua alla farina (l’acqua va aggiunta poco alla volta). Lavoriamo l’impasto finché non diventa liscio e morbido; a questo punto lo lasciamo riposare 30 minuti a temperatura ambiente in una ciotola e coperto dalla pellicola.

Intanto che l’impasto riposa, prepariamo la farcia iniziando a grattugiare il dolce sardo. Per il ripieno abbiamo due possibilità: la maniera tradizionale o quella più rapida (vi anticipo già, avendole provate entrambe, che il risultato finale sarà lo stesso). Nella versione tradizionale, il dolce sardo, dopo essere stato grattugiato, va cotto in un pentolino e, una volta sciolto, gli si vengono aggiunte le scorze di limone e/o arancia; dopodiché, viene steso il composto su un foglio di carta forno e vengono formati dei dischi col coppapasta più piccolo. Nella versione più rapida, invece, non è necessario cuocere il dolce sardo, ma lasciarlo grattugiato aggiungendo la scorza dell’agrume scelto.

Passati i 30 minuti riprendiamo l’impasto, lo stendiamo e formiamo dei dischi di circa 9 cm.

A questo punto, prendiamo un disco e spennelliamo il bordo con un po’ di albume; dopodiché, mettiamo il formaggio al centro (è indifferente che sia quello fresco o quello cotto) e andiamo a chiudere con un altro disco non spennellato; proseguiamo così fino al completamento.

Mettiamo sul fuoco una padella con abbondante olio per friggere e quando quest’ultimo sarà caldo, aggiungiamo le nostre seadas, lasciandole fino a che non avranno un bel colore dorato. Una volta pronte le asciughiamo con un foglio di carta assorbente e le cospargiamo di (taaaaaanto) miele.

Il nostro piatto è ora pronto per essere gustato.

Siete pronti a replicare? Tre, due, uno… Unint ai Fornelli!

E se non trovate il dolce sardo, sbizzarritevi nel creare seadas col formaggio tipico delle vostre zone, noi qui aspettiamo le vostre creazioni!

Ylenia Cossu

#LUXURYMOMENTS: #LUXURYJUICE

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Emily in Paris Courtesy of Instagram EIP Official Page

Emily in Paris: the fashion tv series that criticizes les Parisiennes

The Netflix scenario has been surrounded by many news during this year. For the most fashionable viewers the waiting was all concentrated into the new chic comedy-drama, Emily in Paris, by the Darren Star the creator of Sex and the City (also Beverly Hills 90 and Melrose Place).

The plot is set from Chicago to Paris where Emily an industrious and lively girl turns up for a work opportunity in the city of love, and fashion, Paris.

She will be surrounded by a super French chic entourage headed by Sylvie, played by the brilliant Philippine Leroy-Beualieu who seems to be extremely unsympathetic to the American girl since the first day. A meeting of minds one “shouting” in English about the importance of social media for an efficiently marketing approach, the other whispering in French and strongly believing in the “old methods” of marketing.

The result is straightforward: a series of events will confirm Emily as a creative, intuitive ace in the fashion game. but before that many challenges will be faced.

As Emily arrives to Paris, she settles into a perfect artistic little flat and meets several new characters. The firstly charming neighbor, Gabriel, who cooks in the restaurant nearby in the district. The two will immediately find a chemistry but, drama spoiler, the guy is taken.

Soon Emily will meet Mindy, a Chinese who’s escaping from her home in Shanghai to prove her independence and ending up being a nanny (still, a fashionable one).

Then Emily meets Camille, the sweetest Parisienne in the city, who happens to be in a relationship with Gabriel making the potential romance a failure from the beginning.

But, the city is still hers.

Even if the workplace is a chronicles of nightmares and her cultural misadventures make Emily a funny character before making her a fashion influencer, she will eventually end up blossoming into a fierce woman fascinating even the most unlikely-susceptible character, Pierre Cadault the anchor-designer of the season and the lucky star among the Emily’s P.R. agency customers.

Few questions arose during the view of the series and some are deliberately left unanswered for the next season.

  1. Is it snob(bish) really cool?

The description of the Parisienne atmosphere at the workplace has left the French public particularly annoyed.  Some argued that the visitors could be “traumatized” by the antiseptic vision that the people who actually live in Paris have in relation of the visitors from abroad. Not guests, not visitors more like strangers here the word we are looking for. This is like an inner circle: if you cannot share the same ideals of the big city, you’re labelled as “out of market”. But from people who once where from abroad and successfully integrated into the city, with struggle of course but not exceptionally atrocious as the series describes, Paris is more opportunities than opportunism. The series has been ironically seasoned by Americans using misunderstandings as a sharp blade cut the, hypothetically, serious atmosphere.

  • Is Fashion a debate of generations?

First Emily vs Sylvie then Pierre Cadault (who sound very much like Arnault, very clever) vs Grey Space. The debate is true: from methodology and approach to designer and production. Emily is a fresh, lively twenty-something girl who unexpected turned her life upside by moving to Paris. Her views for promotion are quite different from Sylvie ones’ more related to the vis-à-vis relation with the client and overall against the fast turn of social media, considering them as a tool not exactly an end. But the combinations of the two is that balance we wish to see in season two, a training- supportive adventure that is not far from reality if you think about flourishing firm which constantly invest in their human resources. As for Pierre Cadault and Grey Space the debate is also visual: one reminds the golden age of Paris and the romantic silhouette of Christian Dior (at least at the beginning of the series), the others are street-styled almost futuristic pioneers of a generations that sometimes seems to be a little too contemptuous.

  • Is love preventing us from ruling the world?

The hardest question not just from this series I presume. Love and work, carrier and private life. Find the perfect balance is already difficult even if there are not connected in the same field: as Emily exceeds in one this the other seems to be at least damaged. The  city of love will for sure call for many romantic encounters: a fascinating but pedantic teacher, an impossible love story and, for now, the shadow of Mathieu Cadault, heir of Pierre, are the possible “distractions” for our Emily: who’s going to overturn the annoying Parisienne stereotype first?

  • Who’s really Pierre Caldault?

The most hunted fashion icon and designer of the season needs of course a personal space.

Even if at the beginning he could seem a gathering of all the worst attributes for French people, during the developing of the season, his character grows as well touching some important aspect of the fashion industry like acceptance, the fear of the failure and the exactment of renovation. Starting like an elegant owner of an “aristocratic” atelier he struggles with the innovative designer of Grey Space represented by two young Americans who believe that the future of Haute Couture is the simplification of the system by using Jumpers and culdoscopies textures in their production.

After several moments of discomfort and almost a resignation, Pierre comes up with a new concept of Haute couture which engage the street wear and the youth of its public. From soft colors and textures to strong and daring overlapping of fluos and tons, tons of tulle. To conclude every dress has some sort of message according to the concept of “think differently”. Pierre creations have something of Jean Paul Gaultier from the pistol dress in velvet in 1984 to the “outrageous” black leather dress of Madonna later on but also something very Italian like the creation of Moschino of the last years, like the icon black dress with the capital white letters “You can dress me up! but  you can’t take me out”.

A dress, a statement.

Fanny Trivigno

Sources

https://www.independent.co.uk/arts-entertainment/tv/reviews/emily-paris-netflix-review-lily-collins-b714646.html

https://www.vogue.it/moda/article/jean-paul-gaultier-momenti-memorabili-sfilate-carriera

https://www.instagram.com/emilyinparis/?hl=en

#FACCIAMOILPUNTO

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ECCO PERCHÈ IL FATTORE 5G È DA TENERE D’OCCHIO

La discussione sul fatto che il nuovo network 5G potesse essere uno dei principali fattori veicolanti del Covid-19 è stata accolta con una sonora risata da tutti noi: durante la prima metà di questo rocambolesco 2020, ci siamo divertiti ad ascoltare tutti quei negazionisti e le loro teorie secondo le quali il virus sopracitato sarebbe uno strumento inventato appositamente al fine di frenare le libertà dei cittadini. Da un punto di vista scientifico non esiste alcun collegamento tra Covid-19 e 5G; ciononostante, quello che abbiamo scherzosamente screditato per mesi potrebbe essere un fattore di collisione tra due superpotenze.

Di per sé lo scontro tra Pechino e Washington non è una grande novità: i dissidi tra i due giganti sono più o meno all’ordine del giorno in campo di relazioni internazionali. Si tratta di due attori internazionali che producono circa un terzo del PIL mondiale e che non vogliono proprio sentir parlare l’uno dell’altro. Le origini di questo reciproco disprezzo sono profondamente ancorate nel fatto che i due rappresentino ideologie completamente differenti: da una parte, la patria della democrazia liberale, dall’altra un comunismo interpretato ad hoc con sfumature autoritarie. I due Paesi rispecchiano inoltre modus operandi opposti in ambito di relazioni internazionali. Gli USA, sulla base del principio del manifest destiny, sono i pionieri della democrazia e delle libertà fondamentali in tutto il mondo, mentre Pechino ha sempre adottato una linea chiusa, sulla base del rigetto del prodotto del modo di fare diplomazia degli Stati occidentali. Due mondi opposti ma simili in quanto entrambi al momento appoggiano su un forte sentimento nazionalistico. Basti considerare l’ultimo discorso che Trump ha tenuto durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il cui principale scopo era quello di colpire la Cina ed identificare in quest’ultima l’unico e solo responsabile della pandemia. Un discorso che ha rimbalzato in Oriente e non ha fatto altro che rafforzare la posizione del Xi Jinping agli occhi del popolo dell’ex Celeste Impero.

Perché, quindi, l’avvento del 5G dovrebbe preoccuparci? La risposta è legata alla nuova guerra che riguarda il campo del progresso tecnologico. Gli USA sono da sempre leader del settore ed hanno dimostrato la loro superiorità a partire dall’inizio della guerra fredda. L’Unione Sovietica non è mai stata in grado di reggere il confronto con il nemico d’oltreoceano, ma Pechino sembra aver raccolto il guanto della sfida americana con prontezza. A seguito delle proteste di fine anni ’80, infatti, il governo cinese si è trovato ad investire molto nello sviluppo tecnico. Dopo circa 4 decenni, ci troviamo ad un punto cruciale: marchi come Huawei sono diventati i principali competitor delle aziende americane ed hanno esportato i loro prodotti in tutto il mondo. Questo nuovo conflitto, acuito dalle accuse poco accurate del presidente Trump nei confronti della responsabilità cinese riguardo alla pandemia, si sta trasformando in un fattore scatenante di quella che viene definita come una nuova possibile Guerra Fredda. In effetti, dopo aver messo al bando la costruzione della rete 5G da parte di Huawei a Londra, i nostri principali alleati stanno facendo pressioni su Roma proprio per evitare che l’Italia possa concedere al colosso cinese l’appalto per l’adesione al network. In poche parole, la posizione dura che gli Stati Uniti hanno adottato nei confronti della Cina si sta concretizzando attraverso l’appello agli ex-alleati di prendere una posizione netta nei confronti nei confronti di quella che può essere definita come una vera e propria crociata contro l’espansione cinese. D’altro canto, nonostante la propria iniziale timidezza, Xi Jinping non ha alcuna intenzione di restare a guardare: una sfida alquanto interessante, i cui sviluppi stanno prendendo forma anche in ambito diplomatico. Il 20 Luglio scorso l’FBI ha fermato 4 cittadini cinesi sostenendo che fossero coinvolti in operazioni di spionaggio, chiudendo il consolato cinese di Houston. Proprio all’interno di queste dinamiche si inserisce il nuovo dibattito hi-tech sul 5G, sul quale il Vecchio Continente giocherà un ruolo fondamentale.

In poche parole, bisognerà valutare quali politiche adotteranno gli Stati europei per far fronte a questo nuovo scontro internazionale. Il dibattito si è già scatenato in Francia ed all’interno della CDU tedesca: applicare una politica protezionistica di esclusione delle tecnologie cinesi, favorendo ancora una volta l’ingerenza USA nelle politiche di sviluppo del nostro continente, oppure lasciare il campo ad una potenza emergente con un potere economico non indifferente? Ad ognuno le proprie conclusioni. Quello di cui siamo certi è che la fine della governance internazionale americana e dell’asset mondiale unipolare è ormai giunta e bisognerà scegliere, ancora una volta, da che parte stare.

Martina Noero

#LOSAPEVATECHE

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Il caso del Cinema Impero – Roma e Asmara a un passo di cuore

«“Arzete” fece allora, “e vattene ggiù pe l’Acqua Bullicante, che io te vengo appresso.” Chiacchierando si rifecero tutta la via dell’Acqua Bullicante, mentre alle loro spalle le sambe suonate al fonografo e i canti della processione andavano smorzando. C’era ormai solo qualcuno che tornava dal Preneste o dall’Impero verso la Borgata Gordiani, o verso il Pigneto, oppure qualche ubriaco che rincasava cantando ora Bandiera Rossa ora la Marcia Reale.»

È così che scriveva Pier Paolo Pasolini nel suo Ragazzi di vita, raccontando di una umanità dimenticata sul bordo delle strade e di ragazzini che s’affacciano sul cinismo del mondo in uno dei quartieri più fervidi e dinamici della Roma del secondo dopoguerra: Tor Pignattara.

È tra le strade di Tor Pignattara che inizia il nostro itinerario.

Qui, in Via dell’Acqua Bullicante 123, dove i ragazzetti pasoliniani chiacchieravano e compivano piccoli furti, era stato inaugurato nella metà degli anni ’30 il Cinema Impero. Con una forte impronta fascista e in stile Art Decò, l’Impero fin dai primi anni di attività rappresentò un luogo imprescindibile nella vita popolare, sintesi perfetta di affaire galanti ed incontri loschi, punto di riferimento di generazioni di abitanti del quartiere romano e spazio attorno cui orbitavano principalmente giovani.

La struttura venne poi abbandonata in uno stato di totale degrado a partire dal 1983 nonostante i diversi progetti di riqualificazione urbana ed il tentativo nel corso degli anni di trasformare l’Impero in un cantiere artistico e culturale polifunzionale.

Se cammini a Tor Pignattara e presti attenzione alla facciata deteriorata dell’Impero, puoi notare ancora oggi la citazione di Pasolini e la scritta provocatoria «Ci siamo trasferiti ad Asmara». Questa frase è apparentemente insignificante, ma rappresenta invece un fondamentale collegamento tra la realtà italiana e quella eritrea e il tentativo di creare una memoria in uno spazio politicamente manipolato nella direzione della rimozione storica del colonialismo all’interno dell’esperienza italiana.

La costruzione del Cinema Impero avvenne infatti nel periodo di massimo consenso al regime fascista e di massima espansione italiana, parallelamente ad un nuovo progetto architettonico dell’Italia oltre il Mediterraneo con l’obbiettivo di riproporre in Eritrea una architettura che fondesse modernismo, futurismo ed un inconfondibile stile littorio. La struttura del Cinema Impero, decodificata e adattata alla sua funzione di spazio d’aggregazione, dopo essere stata costruita a Roma fu ripresa e riproposta ad Asmara (Eritrea) seguendo il medesimo format architettonico, realizzando un Cinema quasi identico nel 1937 ed attualmente ancora in uso.

Il tentativo di riprodurre in Eritrea una città coi connotati tipicamente italiani celava però una ulteriore brama di assoggettamento e una presunta inferiorità della capitale eritrea su quella italiana. Ad Asmara – ma anche nella città portuale di Massaua e nelle città minori, ma in maniera meno evidente – si tentò di imporre una prossimità storica, politica ed architettonica che valse alla capitale eritrea il nome di “Piccola Roma”. La pianificazione urbanistica e delle infrastrutture permise una forte innovazione in campo architettonico, applicando al contesto eritreo tendenze stilistiche tipicamente europee ed imponendo nella gestione degli spazi un controllo sorvegliato, per delimitare i confini di una Asmara tranquilla e pacifica, distinguibile facilmente dal caos delle altre città del Corno d’Africa.

Quella che fu proiettata su Asmara fu però un’utopia architettonica e urbanistica, mai definitivamente conclusa, che vedeva la città come una meta privilegiata di emigrazione italiana secondo il piano d’espansione fascista.

Ad oggi però, nonostante il tentativo di ricreare una “Piccola Roma” su suolo eritreo, solo in pochi sentono lo stretto legame tra l’Italia e le ex colonie; quel legame tra il Cinema Impero di Roma che sembra ormai solo un locale dismesso e il suo fratello eritreo, ancora attivo e punto di ritrovo della capitale. La semplice scritta “Ci siamo trasferiti ad Asmara” rappresenta così, in un territorio che spesso cerca di negare le sue connessioni storiche, il desiderio di rivendicare uno spazio; educare il passante a guardare con criticità alla realtà, scoprire laddove vi sia stato un tentativo di occultamento storico, legittimare uno spazio.

Questa semplice scritta crea infatti un collegamento tra l’Italia e il suo passato coloniale; è una rivendicazione di appartenenza di tanti migranti e figli di migranti, di storie di vita vissuta e di persone che cercano luoghi da abitare, in cui muoversi, in cui integrarsi, in cui sentirsi a casa.

Un grazie speciale e un invito alla lettura dei testi dell’autrice italo-somala Igiaba Scego, una ricchezza straordinaria per Roma e per tutte le storie che sa raccontare nel suo modo unico di dire le cose.

Evelyn De Luca

#UNINTSpeechPressReview

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Siamo lieti di annunciarvi la nuova iniziativa di UNINTSPEECH prevista per l’anno 2020/21: UNINTSpeech Press Review

Di cosa si tratta?

UNINTSpeech Press Review è una rubrica di articoli scritti direttamente dai membri del nostro team: studenti UNINT interessati al mondo che ci circonda, con la voglia di divulgare informazioni utili per tutti coloro che, come noi, desiderano sapere di più sul campo delle lingue e delle culture, ma anche su temi di attualità in grado di fornire particolari spunti di riflessione.

Nello specifico, il nostro team si occuperà principalmente della stesura di differenti articoli, redatti sulla base di fonti scritte o video consultabili online. Inoltre, una delle particolarità della nostra rassegna stampa è che, in maniera regolare, almeno un membro del gruppo parteciperà fisicamente a conferenze di varia natura (di base TEDx) sparse in giro per l’Italia, ma anche realizzate all’interno della nostra stessa università. Da queste trasferte si trarranno le informazioni necessarie per redigere un articolo, potendo fare affidamento anche su interviste dirette ai vari oratori e sulla documentazione audio e video raccolta al termine di ogni conferenza.

I temi trattati saranno perlopiù inerenti al mondo delle lingue, delle culture, della traduzione e dell’interpretariato e si baseranno sia su esperienze fisiche reali sia su fatti internazionali che tutti coloro che fanno parte del settore dovrebbero conoscere e saper sfruttare al meglio. La presente rubrica è stata creata per raccogliere articoli, interviste, traduzioni, materiali e documenti vari relativi a questo campo specifico, con la speranza di suscitare curiosità e voglia di conoscere in tutti i nostri lettori.

Come affermava Plutarco: “la mente non è un vaso da riempire, ma un fuoco da accendere”. Con questa rubrica ci auguriamo di fornirvi strumenti più adatti per poter accendere, se non un fuoco, almeno una piccola fiammella.

Giorgia Proietti
Responsabile UNINTSpeech Press Review