Re MidaUna scintillante avventura

Dopo un rapido tuffo nel Pacifico Meridionale con il racconto neozelandese di Papa e Rangi, torniamo oggi a navigare mari e miti decisamente più familiari. In questo articolo vi parlo del mito di re Mida e del suo “tocco d’oro”.

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La narrazione più conosciuta di questa vicenda è quella proposta da Ovidio nelle Metamorfosi, che qui vi ripresento, ma i primi accenni alla figura di Mida si ritrovano già in Erodoto e questo mito, come molti altri, non manca di riletture e narrazioni successive.

Secondo la leggenda, Mida era il sovrano della Frigia, regno storico dell’Anatolia centro-occidentale, figlio della dea Cibele e del re Gordio.
Un giorno alcuni contadini frigi trovarono il satiro Sileno, precettore del Dio Dioniso, che, in preda all’ebrezza del vino, si era smarrito e si aggirava senza meta per i boschi del regno. Dopo averlo ricoperto di ghirlande e corone fiorite, lo scortarono dal loro re, il quale lo accolse entusiasta celebrando l’ospite con una festa di dieci giorni e dieci notti. All’alba dell’undicesimo giorno Mida riaccompagnò Sileno da Dioniso, che, commosso nel rivedere il maestro perduto, decise di ringraziare il sovrano concedendogli un desiderio.

A lungo Mida cercò nel suo cuore interrogandosi su cosa bramasse di più al mondo e alla fine rivolse al Dio queste parole: “Fa’ in modo che tutto quello che tocco, si muti in fulvo oro”. Dioniso esaudì a malincuore la richiesta del sovrano che se ne andò soddisfatto, ignaro del suo destino.

Una volta congedatosi da Dioniso e la sua corte Mida cominciò ad esplorare i limiti del dono appena ricevuto. Staccò un rametto da un arbusto di laccio e questo si mutò in oro di fronte ai suoi occhi sgomenti. Raccolse sassi e zolle di terra e si ritrovò tra le mani pepite e sabbia preziosa. Spine di grano e succosi frutti divennero metallo non appena sfiorati i suoi palmi e persino l’acqua si tinse di sfumature dorate quando egli vi intinse le mani. Mida immaginava già l’intero mondo tramutarsi in oro al suo tocco e a stento trattenne la sua immensa gioia.

Dopo aver testato l’abilità che gli era stata concessa, fece ritorno a palazzo per rifocillarsi e festeggiare con un banchetto. Una volta sedutosi alla tavola imbandita fece per addentare il primo boccone, ma i suoi denti non trovarono che duro metallo. Provò e riprovò a mordere il cibo che era stato per lui preparato ma tutte le pietanze (“i doni di Cerere” come Ovidio li definisce) si irrigidivano appena sfiorate le sue labbra; persino l’acqua e il vino colavano nelle avide fauci come metallo fuso.

Tutta quella ricchezza, che aveva tanto bramato, non poteva dissetarlo né placare la sua fame. Non vi era più cibo né bevanda che non si mutasse in freddo metallo sotto le sue mani impotenti.

Avendo compreso la portata della sua scintillante sventura, Mida tornò da Dioniso in preda alla disperazione, implorandolo di riprendere il regalo funesto. Il Dio, impietosito dal pentimento e dalle suppliche del sovrano, gli concesse di tornare alla sua condizione naturale, bagnandosi nelle sorgenti del Pattolo. Mida fece come il Dio gli aveva detto e si immerse nelle acque del fiume, che si arricchirono, da quel giorno, di sabbie aurifere.

Tuttavia, secondo il racconto di Ovidio le sventure di Mida non erano affatto terminate; infatti il re fu vittima di una seconda maledizione divina.

Un giorno Pan, dio delle montagne e della vita agreste, osò sfidare Apollo sostenendo di poter suonare meglio di lui. I due si misurarono quindi in una gara musicale designando il monte Tmolo come giudice. Apollo fece cantare la sua cetra così sublimemente che sia Tmolo, che lo stesso Pan, dovettero riconoscerne la superiorità e assegnarli la vittoria. Solo Mida, che in quel momento passava di lì, espresse il suo disappunto per la  decisione sostenendo che le abilità di Pan fossero superiori. Per punirlo Apollo fece crescere al re due lunghe orecchie da somaro.

Mida, pieno di vergogna e incredulo di fronte alla sua nuove sfortuna, cercò di nascondere le orecchie asinine con un una benda purpurea. Tuttavia non passo molto tempo prima che il servitore che aveva incaricato di tagliargli i capelli scoprisse l’inganno. Il sovrano gli intimò di non raccontare a nessuno quanto aveva visto, ma il servo, spinto da un bisogno irrefrenabile di condividere la scoperta, scavò una buca nel terreno e, sussurrando, vi confessò il terribile segreto. Ricoprì poi per bene la buca e se ne andò in silenzio con il cuore più leggero.

Dal punto in cui servo aveva seminato il suo segreto cominciò però a fiorire un fitto bosco di canne, che mosse da un lieve soffio di vento, riferirono all’intero regno le parole sepolte. Tutti i frigi seppero così delle ridicole sembianze del loro sovrano e lo derisero fino alla fine dei suoi giorni.

Ovidio dipinge quindi due facce di Mida: da un lato il Mida aureus (Mida e il tocco d’oro) e dall’altro il Mida auritus (il Mida punito con le orecchie da asino). La versione sicuramente più nota è quella del Mida aureus, tanto che questo personaggio mitico e la sua storia rappresentano ancora oggi un conosciutissimo simbolo di avarizia.

Alessandra Bigi