Widad Nabi, una voce di donna nella diaspora siriana

Per un Occidente che spesso non ha voglia di vedere – di aprire gli occhi sulle realtà drammatiche di altri mondi, che però sono anche nostri mondi – alcune voci sembrano venire da lontano, e scuotere profondamente la coscienza di chi è disposto a farsi scuotere. Sono voci che portano con sé storie di sofferenze, sopraffazioni e ingiustizie universali; voci di una umanità che è associata sempre a un contesto di guerra – come la Siria – ma che sono in realtà molto altro. Voci che sono persone, donne, uomini, bambini, madri, figli.



È la voce di Widad Nabi, curda, che scrive in arabo e si identifica come siriana. Nata a Kobane e formatasi come economista, ha studiato ad Aleppo per poi emigrare a Berlino, dove vive dal 2015. La sua è una storia di fuga e una geografia della sopraffazione, lo schiacciamento di un universo femminile inquieto, di un fermento interiore che non può esprimersi se non in un Paese lontano, troppo lontano.

Widad è autrice di “Mezzogiorno di amore e mezzogiorno di guerra” (2013) e di “La morte come fosse un rottame” (2016). Nelle sue poesie domina il ricordo di una casa. La memoria è una voce lontana, lo sguardo di un cuore che si trova a Berlino ma che è altrove. Widad è la voce della Siria, in particolare del Kurdistan siriano; come lei stessa dice, il suo è un omaggio all’umanità dimenticata e appiattita, al vissuto di persone che esistono indipendentemente dalla guerra e che non possono essere indicate con peculiarità solo connesse alla tragedia siriana. Widad scrive per questo: è una donna emergente nel panorama della diaspora e prima della guerra era lontana dalla scrittura. Ha iniziato la propria produzione solo dopo il 2011: la sua è una poesia che è nata nel dolore, nella piazze di Aleppo e sgorga dalla vita e dalla propria storia. A Berlino sta intessendo importanti legami letterari ed editoriali, divenendo punto di riferimento per la produzione degli artisti rimasti in Siria. Guarda al patrimonio arabo e attinge al suo modernismo, impossessandosi e adeguando il lascito alla sua nuova generazione.

La sua è una poesia attraversata dal tema della memoria e dell’identità: la memoria della perdita e anche dell’amore, che per lei è la forza propulsiva della poesia femminile. «Ho visto donne piantare rose nei punti sventrati dalle bombe cadute sui tetti delle loro case e ho pensato che quelle donne hanno sconfitto con il loro amore la distruzione e le macerie che circondano le loro vite»: così ha dichiarato Widad in un’intervista tedesca, parlando di una generazione di donne sole a cui dedica una delle sue liriche più belle.

Alle donne sole.
Le donne sole
che hanno passato la vita a correre
quelle che non hanno mai conosciuto
il privilegio di accomodarsi in poltrona
perché sempre costrette a correre dietro qualcosa
cose piccole, per altri
facili come l’acqua.
Le donne che hanno a lungo rincorso
lo spettro avvizzito della maternità in pieno ciclo mestruale.
Hanno corso dietro i bouquet di fiori ai matrimoni delle amiche
hanno rincorso uomini che non hanno mai capito
perché una donna ardente di passione
rincorra una cosa semplice come l’amore.

L’amore delle donne e il loro universo intimo e quotidiano: è questo il centro nevralgico della poesia di Widad. Storia di battaglie, storie di resistenza che rivendicano la centralità dell’amore come forma di espressione cruciale. È l’amore il vero antidoto al dolore delle donne e dei curdi.

Le donne sole
che hanno corso dietro i bambini di altre,
corso dietro la casa che non gli hanno costruito,
la felicità mai condivisa,
mentre il dolore cresceva feroce nei cortili delle loro case
sull’uscio del portone della vicina che cantava una ninna nanna al figlio
sul ventre rigonfio di una donna che camminava sul marciapiede.
Le donne sole
quelle che hanno odiato i chili in eccesso del proprio corpo
come se la felicità fosse racchiusa in qualche grammo di peso in meno.

Widad sussurra l’inno di una femminilità negata, un desiderio di maternità represso e lacerante, la voglia di creare e soprattutto di ricostruire. La sua poesia crea la mappatura di una nuova storia in una fase così delicata del Medio Oriente. Richiama Adonis (1930) che aveva iniziato a comporre ispirandosi allo spirito del romantico rivoluzionario guardando ai drammi della storia per parlare del presente. Il passato è per loro un costrutto verbale fondato sulle narrazioni: è l’unico bene che l’esule porta con sé. È il ricordo della sua storia, una storia che qualsiasi cronaca ignora. Quello che scrive è tutto ciò che resta di un’identità sradicata. Canta, l’esule, le intemperie che è costretto ad affrontare, il dolore umano che stabilisce un ponte tra sé e il lettore, ricordando che è impossibile continuare e altrettanto impossibile non continuare. L’urto del trauma si eleva grazie alla redenzione dell’arte e della parola poetica. La parola dei senza voce solo così potrà restare eterna.

Widad ricorda la propria casa e del ricordo fa poesia: ci vuole sempre un dolore per illuminare la casa di un poeta. Servirà sempre un dolore per far parlare una voce dimenticata e per evocare una città abbandonata.

Evelyn De Luca