La teoria dei non-luoghi ed il multiculturalismo: il caso della Stazione Termini

Nella fase postindustriale e globalizzata c’è una accelerazione nella trasformazione dello spazio; la rimozione della memoria storica si combina quello che l’antropologo Marc Augè definisce “un triplice eccesso di spazio, di tempo e di ego”. Questo fenomeno porta a una complicazione dei rapporti tra lo spazio e la storia che trova manifestazione nel fenomeno della «surmodernità», un’epoca postmoderna contraddistinta dagli eccessi e dalla circolazione di beni, idee, messaggi e individui portata alle sue massime conseguenze.



La contraddizione alla base della surmodernità crea zone di luce e di ombra nello spazio sociale; si genera una estensione dello spazio urbano che offusca la centralità della memoria storica connessa ai luoghi. Simbolo per eccellenza della surmodernità è infatti, per Augè, il non-luogo, uno spazio provvisorio e di passaggio che è destinato a una fruizione immediata e rapida. Il non-luogo è incapace di integrare la memoria storica nello spazio e smette di essere un riferimento sociale per i soggetti che lo popolano; la vecchia topografia e l’esperienza storica del luogo vengono delegittimate e relegate alla funzione di mero intrattenimento. Il non-luogo cessa di essere identitario, storico e relazionale; l’individuo che lo frequenta perde la connessione con la memoria storica sottintesa al luogo; non vive l’esperienza aggregativa che consente la creazione di una identità transculturale ma stabilisce solo una identità provvisoria ed effimera.

Tali non-luoghi, più che essere semplici categorie spaziali, sono il simbolo di una nuova tipologia di rapporto tra individuo e spazio abitato; si stipula infatti una relazione «solitaria e contrattuale» che svuota il luogo dalle relazioni interpersonali, dalla storia e dall’identità ad essa connessa.

La Stazione Termini è tra i luoghi romani che meglio si prestano allo slancio riflessivo; è l’emblema di un progetto urbanistico inefficace a garantire una omogena distribuzione della popolazione straniera. Se il nuovo patto postmoderno tra luogo e individuo risulta problematico per la coscienza collettiva e la costruzione identitaria, è pur vero che il vuoto nelle città postcoloniali offre la possibilità di rimappare lo spazio attraverso il potere discorsivo e performativo della cultura.

La Stazione Termini ben si presta a descrivere il triplice eccesso di spazio, tempo ed ego; per eccesso di spazio e di tempo Augè intende una moltiplicazione degli eventi storici connessi alla conquista dello spazio e ai fenomeni di globalizzazione. Aumentano le connessioni tra le diverse realtà grazie ai sistemi di trasporto ma diminuisce lo spazio non «colonizzato» da influenze estere. Per eccesso di ego si intende invece una «individualizzazione dei riferimenti storici»; nello spazio urbano l’individuo si ritiene capace di interpretare in maniera soggettiva lo spazio della realtà, spesso in maniera infondata ed avulsa dal reale contesto storico e geografico. Gli spazi pubblici della città – e soprattutto i non-luoghi – ritornano ad essere luoghi di incontro grazie alla presenza di uomini e donne migranti che attraverso lo spazio urbano disturbano una concezione monolitica e organica di spazio e della sua rappresentazione; la Stazione Termini di Roma, quindi, è il crocevia per eccellenza di storie umane e di identità differenti e contraddittorie.

Lo spiazzale antistante alla stazione Termini appare infatti il simbolo urbano più adatto per sintetizzare la Babele di lingue e culture della capitale, il groviglio di storie e di volti in cerca di legittimazione. Proprio in questo rione “incompiuto”, in cui convivono una notevole pluralità di comunità, è stato aperto negli ultimi anni il primo ufficio postale multietnico d’Italia a poca distanza dall’Esquilino, con dodici dipendenti di cui otto stranieri e quattro italiani poliglotti. Questo ufficio è stato aperto nell’ambito del “Progetto Uffici Postali Etnici” con 27 uffici postali sul territorio nazionale. Come riportato da un articolo del Corriere della Sera, nella sede di via Marsala c’è un operatore cinese, una donna di nazionalità rumena, un’operatrice egiziana, quattro italiani in grado di parlare inglese, francese e spagnolo, una consulente finanziaria filippina e una specialista in partite Iva di madrelingua inglese.

Una posizione di particolare rilevanza appare, più che quella degli uomini, quella delle donne, vittime di una triplice oppressione di classe, razza e genere, e in grado di abitare questi luoghi discorsivi come se fossero «rented spaces», spazi presi in prestito. La presa in prestito di questi spazi da parte delle donne costituisce una pratica culturale in grado di produrre conoscenza e un nuovo significante mutevole, ridefinendo così il valore dello spazio, il concetto di identità ed i canoni culturali sia su un piano contenutistico sia linguistico. I contributi eterogenei prodotti in ambito culturale non solo aprono a nuovi orizzonti di possibilità, ma consentono anche la sperimentazione di nuove forme di coscienza. Un procedimento del genere consente di superare una spartizione nazionale che ormai risulterebbe anacronistica, e di decostruire il valore materiale e simbolico del concetto di frontiera, affinché un individuo che superi una frontiera per immettersi in un luogo altro non sia più avvertito come “ospite” né automaticamente relegato a una posizione subalterna.

Evelyn De Luca

Fonti:
Poste a Termini, l’ufficio multietnico che parla tutte le lingue del mondo – Corriere.it