#UNINTSpeechPressReview

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Sarvègguome tes rize ma: salviamo le nostre radici!

In provincia di Reggio Calabria, ai confini del Parco nazionale dell’Aspromonte, sono ancora osservabili le tracce della cultura magno-greca. Tra i panorami mozzafiato del versante ionico dell’Aspromonte, un’area che un tempo era di difficile accesso, sorgono i comuni di Condofuri, Gallicianò, Roccaforte del Greco, Roghu e Bova, dove è ancora possibile sentir parlare una lingua antica, residuo dell’incontro di due popoli e del contatto tra lingue, culture e tradizioni differenti. Per la sua lontananza rispetto alle località frequentate dai turisti e per la precarietà dei collegamenti tra zone costiere e l’entroterra particolarmente impervio, questa zona della Calabria ionica è diventata nel corso dei secoli una delle ultime roccaforti della cultura e della lingua greca in Italia. Fino all’inizio del secolo scorso, la mancanza di strade e infrastrutture percorribili costringeva i paesi dell’area grecofona all’isolamento e spesso all’analfabetismo e alla scarsa conoscenza dell’italiano, un fattore favorevole alla conservazione della lingua autoctona. Oggi nel territorio della Bovesìa sono poche centinaia gli ultimi testimoni di ciò che resta dell’antica civiltà della Magna Grecia e della sua eredità culturale, visibile soprattutto attraverso la lingua.

Il greco di Calabria è un dialetto del greco moderno ufficialmente riconosciuto come minoranza linguistica e rappresenta un caso interessante dal punto di vista sociolinguistico dal momento che si inserisce all’interno del continuum dialettale dei dialetti italo-romanzi, pur essendo un dialetto del neogreco. Infatti, se la “lingua tetto”, ovvero la varietà sovraordinata da cui derivano dialetti italo-romanzi, coincide con la lingua standard della loro regione di diffusione (l’italiano appunto), i due dialetti greco-italioti, il greco di Calabria e il griko salentino, non sono geneticamente imparentati con l’italiano e rappresentano dunque un caso di lingua “senza tetto”, diffusa cioè in una regione la cui lingua sovraordinata non è la varietà standard dalla quale essi derivano. L’Atlante Mondiale delle Lingue in Pericolo dell’UNESCO classifica il greco di Calabria tra le lingue severamente in pericolo: si stima che gli ellenofoni calabresi sarebbero oramai meno di 500, quasi tutti anziani che abitano tra Gallicianò, frazione del comune di Condofuri, Bova e Roghudi.

L’esistenza delle comunità grecofone in Italia è stata a lungo oggetto di studio: è stato ipotizzato che la loro origine sia riconducibile all’immigrazione in epoca medievale di popolazioni ellenofone provenienti dall’Impero bizantino, il che spiegherebbe l’innegabile somiglianza dei dialetti greco-italioti con il greco moderno e la loro parziale intelligibilità. Da studi più recenti è tuttavia emerso che le minoranze ellenofone d’Italia non sarebbero state interessate da migrazioni dalla Grecia continentale in epoca medioevale, vista la mancanza di componenti genetiche balcaniche nella popolazione che abita la Grecìa salentina e l’area della Bovesìa. Ciò conferma quindi l’ipotesi dell’esistenza di comunità ellenofone nella zona dell’antica Magna Grecia sin da tempi più antichi. In effetti, a sostegno di quest’ultima tesi, è interessante notare come il greco di Calabria presenti elementi lessicali derivati dal dialetto dorico, ma assenti nel neogreco, probabilmente dei prestiti dalla lingua dei coloni dorici di Taranto. Una chicca: i due termini èlima e jìis con cui il poeta Esiodo descrive l’aratro dei contadini eretriesi e calcidesi non esistono né nel greco bizantino né in neogreco, ma sopravvivono nel greco di Calabria. I numerosi studi sulla forma, sull’evoluzione e sulle influenze che nel corso del tempo hanno arricchito i due dialetti greco-italioti confermano dunque il loro carattere autoctono e respingono la tesi di un’origine bizantina.

Per proteggere un patrimonio linguistico e culturale che sta velocemente scomparendo, il governo ha approvato la legge 482/1999 in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche, mentre la Regione Calabria si impegna nella tutela delle minoranze greche e promuove l’istruzione bilingue; parallelamente, i comuni di Bova, Bova Marina e Condofuri hanno installato una segnaletica stradale bilingue greco/italiano. Esistono inoltre numerose iniziative culturali promosse da associazioni locali allo scopo di promuovere la diffusione e la tutela del greco di Calabria attraverso l’arte e la musica, come il festival musicale itinerante Paleariza (“Antica Radice”), nato nel 1997 come festival di musica grecanica per creare un’occasione di incontro fra il contesto locale e quello globale.

Sfortunatamente, il progressivo abbandono delle lingue minoritarie sembra inarrestabile ed è dovuto a numerosi fattori, dalle conseguenze della globalizzazione alla stigmatizzazione delle minoranze linguistiche, spesso considerate dei semplici dialetti parlati dai ceti contadini nelle zone rurali, piuttosto che delle lingue a tutti gli effetti che valga la pena imparare. Tuttavia, la salvaguardia del patrimonio di tradizioni e culture del sud Italia passa anche attraverso la tutela delle lingue locali e un cambiamento radicale delle percezioni dei parlanti più giovani. La lingua che ancora oggi si sente parlare da solo poche decine di anziani in provincia di Reggio Calabria è una lingua antichissima, evolutasi in modo indipendente dal greco bizantino e probabilmente parlata già nel VIII secolo a.C., all’epoca della fondazione della città di Krótōn, dove Pitagora creò la sua suola, e di tante altre polis magno greche destinate a conoscere un periodo di intenso splendore artistico e culturale.

Vanessa Iudicone

Fonti:
http://www.unesco.org/languages-atlas/, consultato in data 01/12/2020.
http://www.grecidicalabria.it/, consultato in data 01/12/2020.
https://www.megghy.com/areagrecanica.htm, consultato in data 01/12/2020.
http://www.grecosuditalia.it/, consultato in data 01/12/2020.
https://www.camera.it/parlam/leggi/99482l.htm, consultato in data 01/12/2020.

#RECEUSTIONI

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La strada per Roma, l’impresa di una vita

Hello there, cuties! Oggi parliamo di un libro che forse in pochi conoscono, ma che credo valga davvero la pena leggere, soprattutto se siete curiosi o appassionati di culture altre e volete volare a Pechino, sorvolare Parigi e poi arrivare nella nostra Roma, la magica caput mundi, che non smette mai di esercitare il suo fascino!

Sooooo, mettetevi comodi, si decolla!

“La strada per Roma” è un libro del 2009 che rientra nel genere autobiografico, frutto della penna di Hu Lanbo, la direttrice della rivista bilingue “Cina in Italia” (che ha sede proprio a Roma), imprenditrice e giornalista.

In sole 228 pagine, Hu Lanbo riesce senza il minimo sforzo, a farci attraversare il globo conducendoci insieme a lei, partendo dal “rosso delle mura della città proibita, il grigio dei vicoli della città vecchia, il mare di biciclette nelle strade” di Pechino.

Il suo viaggio parte proprio dalla capitale cinese, in cui incontriamo una giovanissima Lanbo alle prese con i risvolti della Rivoluzione Culturale di Mao Zedong e la testa stracolma di sogni e speranze per il suo futuro, che la conduce per motivi di studio, nella romantica Parigi, dove i suoi passi diventeranno sempre più sicuri e i suoi occhi sempre più aperti all’Occidente, cambiandole il cuore per sempre.

Come diceva Hemingway: “Se hai la fortuna di vivere a Parigi la tua gioventù, Parigi ti seguirà per tutta la vita”.

Nonostante i sogni e la voglia irrefrenabile di conoscere e scoprire il mondo siano il suo carburante, non le mancano certo i momenti di nostalgia, come l’incertezza di aver sbagliato strada e la sensazione di non essere compresa per i suoi occhi a mandorla, ma lungo il cammino, incontrerà anime buone che faranno un pezzo di tragitto con lei, così che anche uno sconosciuto le dimostri la bellezza dello scoprire l’altro senza preconcetti, e così facendo, anche se stessa.

“ I miei occhi ricevevano quotidianamente nuovi stimoli e mi sembrava di assimilare giorno dopo giorno il gusto per l’arte e la moda che riempivano l’aria di Parigi, mi sentivo in continuo fermento d’idee ed impressioni, e contemporaneamente in continua maturazione.”

Tra una stretta di mano e un’occhiataccia, Lanbo diverrà la donna forte ed indipendente che è oggi, e riconoscendo il suo stesso valore verrà notata da gente dal cuore grande almeno quanto il suo, fino a quando il signor Tenti, esploratore e produttore televisivo italiano, le proporrà un’impresa epocale: il Raid Pechino – Parigi,percorso dall’Itala, la Fiat che scortata da altri 9 mezzi  avrebbe percorso 22.000 chilometri in tre paesi, in tre mesi, con la nostra Lanbo come reporter per la Rai!

Niente le sarà regalato o scivolerà via come l’olio, ma l’obiettivo della sua macchina fotografica le permetterà di farsi strada nei meandri delle città e dei piccoli villaggi sperduti che visiterà, realizzando passo dopo passo la meravigliosa forza della natura e la prismatica bellezza del cuore di ogni viaggiatore.

Attraverso la Cina, l’Iran, la Russia, la Polonia, Parigi e infine Roma, in tutte le tappe del suo cammino, Lanbo trova il coraggio di fare la cosa più difficile eppure più necessaria: scommettere su stessa, anche a costo di farsi un pezzo di strada da sola, trovarsi in città sconosciute senza nessuno che conosca, tuttavia trovare sempre il modo di ritrovarsi  in una risata amica, in un caffè con dei nuovi visi, in una nuova vita, che però ha scelto lei per sè.

“La Francia in quegli anni mi aveva accolto, una studentessa che veniva da un Paese povero e lontano, abbracciandomi con la sua umanità: io nel suo abbraccio sentivo calore e affetto.”

Lei ci insegna che lo stesso coraggio di fare il primo passo e andare un po’ oltre il selciato già tracciato, è la carta vincente, sempre.

Così infatti nascerà il suo progetto più ambizioso e di successo: la rivista Cina in Italia, che è diventato “il primo media realizzato da cinesi entrato nelle edicole italiane”, una rivista bilingue che presenta anche il lato meno conosciuto della Cina, quello accogliente, positivo e ricco di tradizioni e dalla storia millenaria.

Hu Lanbo racconta sì la sua esperienza di emigrata cinese in un Occidente ancora un po’ controverso e diffidente, ma la parte della sua storia che lascia il segno è proprio il suo testardo coraggio.

Il coraggio ostinato di insistere sulla sua strada, anche se ogni tanto come tutti noi cade, si sbuccia un ginocchio, sente il gelo nel cuore per la nostalgia del vialetto di casa, teme di essere la donna sbagliata nel posto sbagliato, ma lei va avanti, la sua dedizione è proprio quello che la salva, le permette di trovare il suo posto anche dove un posto per lei inizialmente non c’è, continua stremata la sua corsa e alla fine vince, ma il suo premio è la libertà, di essere se stessa e piantarsi lì, dove ha tutto il diritto di stare.

Worth the hype, isn’t it?

Let me know!

Francesca Nardella

STORIE DI DONNE

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Jane Birkin, la musa di Hermés

Attrice, modella e cantante britannica che con la sua naturalezza ed il suo fascino spontaneo ha conquistato Parigi negli anni Settanta. Una “femme” singolare secondo molti punti di vista, simbolo del cambiamento radicale di un’intera generazione di donne.

Jane Mallory Birkin nasce a Londra il 14 dicembre 1946 da una famiglia di industriali del merletto made in Nottinghamshire. Mentre il padre è sempre stato lontano dall’ambiente dell’intrattenimento, optando per una carriera nella Royal Navy, la Birkin è per metà figlia d’arte considerato che sua madre era un’attrice, July Campbell, di fama mondiale.

Jane esordisce giovanissima come attrice teatrale, come aveva iniziato anche sua madre. All’età di 17 anni è protagonista della swinging London. Dotata anche di una voce dal timbro vocalico vellutato, debutta successivamente come cantante in un musical, incoraggiata e guidata dal compositore John Barry che pochi anni più tardi diventerà suo marito. La coppia avrà una figlia, Kate, nata nel 1967 e deceduta a Parigi nel 2013.

L’esordio cinematografico invece arriva con “Non tutti ce l’hanno” del 1965 diretto da Richard Lester, vincitore della Palma d’oro come miglior film al 18emo Festival di Cannes ma si impone nella mente dell’audience solo con il suo lavoro successivo “Blow-up” di Michelangelo Antonioni. Questa pellicola ne decreta inoltre, il passaggio da ragazzina a giovane donna consapevole di sé stessa.

Nel mondo della moda, Jane entrerà più tardi sempre con una tacita spensieratezza ed un’eleganza al di là dei suoi anni: è audace, è determinata ma non cade mai nel volgare. Il suo “skinny body” leggero e proporzionato diventa lo strumento adatto per le creazioni degli stilisti degli anni 70, lei indossa tutto e tutto le si adatta perfettamente.

Con il suo trasferimento in Francia e la rottura con Barry, ritroverà l’amore con Serge Gainsbourg che duetterà con lei nella celeberrima “Je t’aime… moi non plus” registrata precedentemente con Brigitte Bardot. La canzone è un successo ma anche uno scandalo: un’allusione al rapporto amoroso soggiace per tutto il testo della canzone alternato a sospiri complici e sensuali. La relazione con Gainsboug, tuttavia, non è destinata a durare. La loro storia si conclude nel 1980 dopo che nel 1971 la coppia ha avuto una figlia, Charlotte, anch’essa attrice di successo.

Successivamente la Birkin incontrerà il regista francese Jacques Doillon padre della sua ultima figlia, Lou, oggi modella.Insieme alla figlia disegna una linea di abbigliamento per “La Redoute”.

Molti sono gli avvenimenti che collegano la vita di Jane Birkin al mondo della moda, in particolare è doveroso ricordare un avvenimento casuale, avvenuto nel lontano 1984, che avrebbe per sempre associato il suo nome a quello di uno dei prodotti più venduti della maison francese Hermès. Stando alle fonti, Jane avrebbe avuto un piccolo indicente in aeroporto che avrebbe completamente ribaltato il contenuto della sua borsa Hermès. Ad assistere alla scena, fortuna del caso, era presente Jean-Louis Dumas direttore artistico della casa di moda dell’epoca che prenderà in prestito la borsa di Jane per poterla riparare. Il risultato dopo qualche giorno è il modello della borsa Birkin di Hermès proprio in onore della sua musa ispiratrice (e la prima a “credere” nell’iconicità dell’accessorio). Lei però continua a mescolare capi extra lusso con accessori moderni e semplici come il suo immancabile secchiello di paglia intrecciata, ancora oggi uno dei capi simbolo dello stile parigino. Oggi l’attrice lavora principalmente a teatro salvo sporadiche apparizioni cinematografiche.

Molti sono gli stilisti che dopo più di 40 anni si rifanno agli elementi dello stile Birkin: è il caso di Alessandro Michele, direttore artistico di Gucci, che si rifà alla gonna midi di Cacharel indossata nel 1971 con cintura Garay e body di Weber per la collezione Gucci S/S 2020, Marc Jacobs con il mini dress carta da zucchero S/S 2020 simile ad un modello indossato dall’attrice nel 1968 oppure ancora Jacquemus per gli abiti fluidi in ecrù ispirati ad un look sfoggiato dalla diva al festival di Cannes nel 1974.

Fanny Trivigno

Sources:
www.vogue.it/moda/gallery/jane-birkin-stile-musa-hermes%3famp
www.donnaglamour.it/chi-e-jane-birkin/curiosita/amp/
www.corriere.it/spettacoli/19_novembre_21/jane-birkin-con-gainsbourg-ho-scoperto-l-amore-sesso-ma-nostra-figlia-charlotte-ha-avuto-carriera-migliore-mia-51ea2222-0c37-11ea-9d5f-86e634d219bc_amp.html
www.viagginews.com/2019/11/21/jane-birkin-eta-carriera-vita-privata-cantante-britannica/amp/

#UniversEAT

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Mug cake

Amici di #UniversEAT, ben ritrovati! È ormai inverno, le giornate sono corte e scandite da zone gialle, arancioni e rosse, diciamo che è iniziato il periodo in cui i pomeriggi sono fatti di “maratone di serie tv col plaid sul divano”.

Ma cosa ci prepariamo? Bisogna trovare il giusto compromesso tra velocità, semplicità e, soprattutto, gusto. Ecco la soluzione: la Mug Cake! Una torta in tazza, quindi monoporzione, che si cuoce al microonde ed è pronta in pochissimi minuti.

Ingredienti per una tazza:

  • 2 cucchiai di farina;
  • 2 cucchiai di zucchero;
  • 1 cucchiaio di cacao amaro;
  • 2 cucchiai di latte;
  • 1 cucchiaino di lievito per dolci;
  • 1 uovo;
  • Zucchero a velo q.b. (facoltativo).

In una tazza mettiamo prima le polveri e, dopodiché, aggiungiamo il latte e l’uovo; mescoliamo bene con una forchetta, ma ATTENZIONE: l’impasto non deve superare la metà della tazza. A questo punto inforniamo la nostra opera d’arte nel microonde: ci vorranno solo un paio di minuti a 750 watt.

Una volta terminata la cottura, la si può decorare a piacimento: chi preferisce lo zucchero a velo, chi la panna montata… a voi la scelta!

Piccolo consiglio dalla sottoscritta: per renderla più sfiziosa, prima di mettere la tazza nel microonde aggiungo un paio di cubetti di cioccolata all’impasto.

Per chi non ha il microonde, si può comunque cuocere in forno a 175° per circa 15/20 minuti.

Siete pronti a replicare questo piccolo cuore caldo? Tre, due, uno… UNINT ai fornelli!!

E non dimenticate di mostrarci le vostre creazioni, noi siamo pronti a ripostarle!

Alla prossima amici! Ylenia Cossu

#LUXURYMOMENTS: #LUXURYJUICE

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A fashion look at Christmas movies

When it comes to Christmas we will directly start to think about fluffy scarves, extra-large over-decorated jumpers and quite disagreeable socks. So, let’s face it, Christmas is that time of the year when the fashion reputation is suspended.

What we may look for, especially after this difficult year, is a little sense of self-concentration where the primping is little but constant work to avoid blues and negativity. Taking care of ourselves passes also through our imagination: the ability to create new scenarios in which it is possible to “redecorate” our dreams and fill in with concrete premises…what a better way to deal will all these suggestions if not by watching a Christmas movie?

Since we like it fashion, here is a list of classy and timeless options to avoid the mushy effect.

The first movies that should be mentioned is “Meet me in St. Louis” edited in 1944. Even if it does not apply to the classical definition of Christmas themed performances, it is necessary to put the attention on the magic vibe expressed by the motion picture and its cast.

A marvelous Judy Garland’s performance with “have yourself a merry little Christmas” is meant to be listened to over and over again through the ages; together with her vibrant character there’s Margaret O’Brien, Mary Astor, Tom Drake, Lucille Bremer and Marjorie Main. Apart from the musical features, the attention is caught by the extravagant costumes; a must for the fashion addicted are the evolution of the wardrobe according to the development of the story and particularly of Judy Garland’s Esther character. The designer Irene Sharaff is not afraid to toss some lady-like gloves on the young girl-next-door-character for the central “The Trolley song” and also, puff sleeves allowing, she adds more definition to the feminine waistline of the Garland even if the character is not completely ditching her tomboy tendencies along the story developing.

Another holiday classic “need to be” is the Frank Capra’s “A Wonderful Life”, 1946. Starring Donna Reed and James Stewart, the picture style says “vintage festive attire”. The most iconic costumes are, no doubts allowed, Mary Hatch’s Christmas dress, Mary’s dress that wins over George and Ruth Dakin’s family meeting outfit. As for the first one, in a duck blue egg color (as possible to see from the remastered color version), the costume designer felt the urge to impress the audience by introducing historically moderated dresses; that’s why the mentioned dress edited in 1946 for a time-story set in 1928 looks very up-to-the-minute. The second one, the dress that wins the man, should be seen as a fundamental step in the story: the two lovers finally together with Mary wearing a full-skirted silk dress in a shady, somber pink. As a reflection of the character purity of heart and goodwill, the dress is elegantly embodied around the neckline and the hem. The last outfit belongs to Harry Bailey’s wife, who’s able to exhibit a glamorous silhouette in a black pencil skirt, checked jacked with capped sleeves and a large decorated corsage. A pre-pin up vibe.

Carrying on the movie marathon, “White Christmas” (1954) represents as well as a good example of stylish holidays. The film is cheerful, frisky comedy where the joy is displayed since the very first moment: colors and bright lights,  perfectly 50s-ish are successfully capturing the atmosphere. The costumes here are more “traditional”: despite a good dose of “well-embedded Santa Suit”, the Judy Hayne’s turquoise lace and pink full-skirted nightgown are divinely winning the attention. Apart from the women outfits, the costume designer Edith Head expresses her gratified enthusiasm for the men dressing in White Christmas, including the Danny’s charcoal gray suit.

To end up with two gems of the golden age of Hollywood, we propose: “Desk Set” and “Bell, Book and Candle”. The first one, “Desk Set ” edited in 1957, is a first (mild) step on the feminist debate starring Katherine Hepburn, an actress remarkable not only for her talent but also for her dashing, foreseeing attire in terms of clothing choices. The costume designer is the Oscar winner Charles Le Miane and the doozy piece that everyone would probably remember is Dina’s purple cocktail dress, a flare cut typical 50sish.

The last movie is “Bell, Book and Candle” directed by Richard Quine in 1958 and starring Kim Novak, James Stewart, Jack Lemmon, Ernie Kovacs, Hermione Gingold, Elsa Lanchester and Janice Rule. A fantastic comedy in which destiny twists and witty but hilarious stereotypes, the Greenwich Witch casts a love spell.

Another link to Christmas-Halloween movies like Tim burton’s “Nightmare before Christmas” would do. But here the focus is on the chic outcomes of Kim Novak: from classy black trousers and high-necked cardigans, red-Christmas coats and bright gloves to the sleeveless green romantic dress, the pink gown and the bold deep-low line black dress for the evening that makes the costume designer Jean Louis choices extremely actual.

Sources:
www.google.it/amp/s/alisonkerr.wordpress.com/2010/12/02/style-on-film-bell-book-and-candle/amp/
[https://clerkenwellvintagefashionfair.co.uk/our-favourite-outfits-from-its-a-wonderful-life/
https://www.google.it/amp/s/birthmoviesdeath.com/2017/02/17/irene-sharaffs-transformative-costumes-in-meet-me-in-st.-louis/amp
https://vmagazine.com/article/the-10-most-fashionable-christmas-movies/

Fanny Trivigno

#CURIOSITÀDALMONDO

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Storia e origine della Matrioska

La matrioska è il souvenir per eccellenza della Russia, ma non tutti sanno che trae origine da un’antica tradizione giapponese. È difficile non essere attratti da questa bambola di legno che si compone di pezzi di diverse dimensioni, ciascuno contenuto nell’altro. Oggi vi parleremo della sua origine e del suo significato simbolico poco conosciuto.

Savva Mamontov (1841-1918), imprenditore e promotore del circolo artistico e letterario di Abramcevo, luogo di raduno di pittori e artisti, ideò la matrioska. Mamontov allestì vari laboratori e il suo intento era quello di far fiorire il genere artistico tradizionale dei contadini russi. A lui si deve anche l’idea di un laboratorio destinato alla creazione di giocattoli per bambini. Tra questi giocattoli vi erano delle “bambole etnografiche” ovvero bambole vestite di costumi tradizionali di tutto il mondo.

Come nacque l’idea della matrioska?

Mamontov rimase colpito da un oggetto importato dal Giappone, che rappresentava Fukurokuju, divinità della Fortuna secondo la mitologia giapponese e al cui interno vi erano altre quattro figure. I giapponesi dichiararono che fu proprio un monaco russo a realizzare per primo una di quelle figure e da lì nacque l’idea di creare la matrioska.

La prima bambola di legno, chiamata matrena dal termine latino “mater”, ovvero madre, fu costruita nei primi anni del Novecento da Vasilij Petrovič Zvëzdočkin e colorata da Sergej Vasil’evič Maljutin, illustratore di libri per l’infanzia. All’interno di questa bambola vi erano otto pezzi più piccoli che rappresentavano in ordine di grandezza una madre, una ragazza, un ragazzo, una bambina e via dicendo fino ad arrivare alla figura più piccola che rappresentava un neonato.

Significato simbolico

Il termine matrioska si pensa dunque che sia un diminutivo di matrena, ovvero matrona e che rappresenti la figura materna, il capofamiglia in una società matriarcale e che sia collegata alla fertilità della terra e della donna. La matrioska rappresenta dunque la donna forte, in grado di guidare l’intera famiglia e la matrona di riferimento potrebbe essere la nonna, in russo babushka. Essa viene raffigurata tramite l’utilizzo di colori vivi, una contadina russa vestita di abiti tradizionali e con un fazzoletto a fiori sul capo. Sebbene i personaggi contenuti all’interno della matrioska classica siano sempre stati gli stessi, nel corso del tempo si è lasciato spazio anche alla creatività andando così a raffigurare personaggi delle favole, ma anche personaggi politici come Stalin, Lenin e Putin. Il materiale di lavorazione della bambola, il legno, è simbolo di resistenza e amore, è un elemento che si collega alla stagione primaverile, tempo in cui tutto fiorisce. Un’interpretazione interessante della matrioska la si ritrova nella commedia Trois et Une di Demys Aniel, secondo cui in ogni donna vi sono altre donne, ognuna con la propria personalità, proprio come è rappresentata la matrioska russa.

Come viene realizzata?

La lavorazione del legno è un processo molto impegnativo in quanto si deve evitare che esso marcisca. Si utilizza il legno di tiglio o quello di betulla, che in Russia porta fortuna. La prima bambola ad essere costruita è la più piccola, ovvero quella che non si può dividere ulteriormente. La matrioska è costituita da un minimo di 3 bambole a un massimo di 60. La matrioska più grande è composta da 51 pezzi ed è stata realizzata nel 2003 negli Stati Uniti.

Perché regalare una matrioska?

Dopo aver letto queste informazioni, avrete sicuramente capito che la matrioska simboleggia elementi positivi quali l’amore, la bontà e la vita, quindi regalarla a qualcuno è segno di buon auspicio.

Different country, different sound

Rosita Luglietto

#FACCIAMOILPUNTO

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ISRAELE-IRAN: L’AVVENIRE DELLA DETERRENZA

Il 27 novembre scorso, lo scienziato iraniano Mohsen Fakhrizadeh è stato aggredito a nord di Teheran da quattro uomini armati che, dopo averlo costretto a scendere dalla propria auto, l’hanno colpito con alcuni colpi di pistola. Fakhrizadeh era considerato il padre del progetto di sviluppo del nucleare militare iraniano a partire dagli anni duemila, un personaggio ‘scomodo’ per molti, il cui omicidio non sembra essere una drammatica fatalità. Non tardano ad arrivare, nelle ore seguenti all’episodio, alcune dichiarazioni e indiscrezioni divulgate principalmente dal New York Times, secondo le quali le principali autorità iraniane descrivono l’avvenimento come un vero e proprio ‘attentato terroristico’, mentre altre fonti, specialmente israeliane, ritengono responsabili dell’omicidio le forze del Mossad. Ricordiamo, tra l’altro, che più volte in passato il premier israeliano Netanyahu aveva sottolineato l’importanza del ruolo di Fakhrizadeh per quanto riguardasse lo sviluppo di un potenziale progetto segreto di armi nucleari.

A seguito dell’avvenimento, il ministro dell’Energia di Tel Aviv, Steiniz, ha dichiarato al quotidiano della grande mela come la scomparsa dello scienziato iraniano fosse una vera e propria ‘manna dal cielo’ sia per la sicurezza di Israele che per tutto il Medioriente. Dichiarazioni decisamente ambigue, che sembrano confermare quanto temuto: se dietro quest’omicidio ci fosse davvero l’intelligence israeliana, allora in quel caso si potrebbe trattare di una vera e propria crisi mediorientale che si inscrive nel quadro della deterrenza nucleare.

Tra Israele ed Iran non scorre buon sangue da tempo e le frizioni con Israele hanno avuto conseguenze irreversibili anche nei rapporti con gli Stati Uniti. Le tensioni, scoppiate in periodo di Guerra Fredda, si sono acuite a partire dagli anni duemila e riguardano prevalentemente la spinosissima questione delle armi nucleari. Israele, dal canto suo, combatte da sempre una guerra coriacea con i paesi islamici al fine di poter difendere la propria sicurezza nazionale; inoltre, Tel Aviv e Teheran si sono confrontati apertamente più volte in territorio siriano.

Nel 2015 era stato raggiunto un particolare accordo sul nucleare iraniano (anche noto come JCPOA), a cui avevano partecipato i cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, la Germania ed una delegazione UE. Il JCPOA prevedeva un taglio drastico delle riserve di uranio e la conversione di alcuni impianti al fine di ridurre al minimo i rischi di proliferazione. L’accordo poneva, inoltre, fine alle sanzioni dei Paesi occidentali imposte precedentemente nei confronti di Teheran. Nonostante questa presa di posizione, nel 2018 la presidenza Trump ha deciso di uscire dal JCPOA e di re-instaurare nuove sanzioni nei confronti dell’Iran; al seguito di questo episodio, alcuni Paesi UE, la Russia e la Cina hanno rimproverato gli USA di non aver rispettato la risoluzione 2231 del CdS, secondo la quale non era possibile revocare l’accordo e di re-imporre sanzioni così dure nei confronti dell’Iran. I rapporti, inaspritisi già da allora, non hanno fatto altro che capitolare rovinosamente negli ultimi anni, fino ad arrivare all’episodio dello scorso venerdì.

Al seguito dell’attentato, i vertici iraniani promettono vendetta e di proseguire con la propria strategia nucleare. Intanto, il presidente entrante Biden si troverà immediatamente per le mani l’ennesima delicatissima crisi mediorientale. Si sa, la posizione di Israele non è mai piaciuta ai Paesi della Lega Araba, come allo stesso tempo esiste un passato di grande risentimento tra Iran ed USA: una lunga storia fatta di piani, mirini ed obbiettivi mancati che ci portano alla situazione odierna. La nuova sfida nel campo delle relazioni internazionali e della deterrenza dovrà essere gestita con maestria dal nuovo leader US, il quale sarà senza alcun dubbio il solo e l’unico in grado di assumere la direzione di un potenziale nuovo tracollo mediorientale.

Martina Noero

Maison Celestino

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La storia della Maison 100% Made in Italy

Chi è la Maison Celestino e quali sono le sue origini, lo scopriremo qui di seguito riportando alcuni cenni sulla nascita e sull’evoluzione del brand totalmente Made in Italy. Nata agli inizi del ‘900 dal Maestro Eugenio Celestino, la Celestino s.r.l. si è evoluta nel corso delle generazioni, dall’attività di tessitura artistica, alla creazione di prodotti tessili per l’arredo casa e corredo, fino alla creazione di vere e proprie collezioni di alta moda italiana. Al Maestro va il merito di aver saputo amare e valorizzare ma soprattutto conservare l’attività della tessitura in una produzione di eccellenza. Nel corso degli anni della sua carriera, gli sono stati conferiti diversi riconoscimenti istituzionali, partecipazioni ad esposizioni di notevole prestigio, a mostre di mercato e di immagine. Di illustre importanza è la visita a Roma nel 1936 della Principessa Maria Josè di Savoia all’esposizione Celestino. 

Oggi, Caterina Celestino, è la portavoce della storica azienda tessile Celestino Tessuti e della Maison Celestino, nipote del maestro Eugenio, che riprende in mano il timone della passarella. Con la sua forte volontà, passione, fiducia nell’azienda della sua famiglia, con dedizione e sacrificio rende un’antica sapienza ancora più affascinante, glamour e moderna.

Curiosando tra le origini si scopre inoltre che la Maison Celestino è una storica casa di moda italiana, marchio amato dal jet set internazionale, dalla regina Maria José di Savoia ad Ava Gardner. Nota per i tessuti preziosi che vengono utilizzati nella realizzazione degli abiti, per i disegni sofisticati delle stoffe e nello stesso tempo per le linee essenziali.  La ricerca appassionata della qualità di cui sono intrise la natura e la composizione dei filati, la loro artigianalità e la trama fitta e preziosa di storia e d’identità che i preziosi disegni, realizzati dalla sapiente esperienza di maestre tessitrici su telaio artigianale, rievocano e plasmano ad ogni creazione gli elementi che determinano il 100% del prodotto italiano.

La cicogna è il logo inconfondibile della Maison Celestino, omaggio al territorio Jonico la cicogna bianca, che secondo il mito di Antigone è il simbolo dell’amore e della fedeltà, e rappresenta, peraltro, una specie della famiglia delle Ciconidi che da qualche anno ripopola i cieli calabresi.

L’evoluzione della Maison segna il passaggio dal telaio all’alta moda. Dall’arte del telaio di antica tradizione longobucchese, centro montano della Sila, dove è stato di recente inaugurato un museo ad hoc che custodisce tra gli altri anche lavorazioni dell’Azienda, la CELESTINO è stata capace di evolversi, valorizzando il patrimonio, innovando, abbracciando e facendo proprie le tendenze fashion della moda di oggi. La maison crea una rielaborazione stilistica e concettuale dei tessuti in pura fibra naturale (il lino, la canapa, il cachemire, la seta, il cotone) e dei disegni della tradizione che, anche grazie all’ausilio di importanti stilisti e fashion designer, vengono presentati in capi di abbigliamento e preziosi accessori che incontrano il gusto della modernità.

Sin dalla prima collezione presentata sulla scena italiana attraverso il fashion happening promosso a Roma, nella sontuosa cornice di Palazzo Ferrajoli, in seguito la partecipazione alle Fashion Week istituzionali come ALTAROMA e MILANO FASHION WEEK sino ad arrivare all’ultima presentazione mozzafiato avvenuta a settembre 2020 in una cornice da sogno dove il sole al tramonto, il vento tra gli ulivi scolari, il verde intenso di una natura madre di creazioni superbe legate inscindibilmente alla loro appartenenza evoca la emozionante rassegna degli abiti proposti da Maison Celestino con la Collezione P/E 2021 nella sfilata svoltasi presso la storica e elegante Vaccheria Foti di Rossano, terra d’origine del brand. Hanno sfilato capi haute couture in rigorosa fibra naturale, in cui la ricerca del bello accessibile sposa senza compromessi il lusso della qualità. Impossibile non restare ammaliati da cotanta sensualità ed eleganza, doti che caratterizzano tutte le collezioni della Maison Celestino, il capo firmato CELESTINO non è caratterizzato solo da un design moderno e suggestivo ma riesce a conferire un senso di importanza e di emozione in chi lo indossa.

By Maria Christina Rigano

#QuelloCheCiUnisce

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Giornata internazionale della solidarietà con il popolo palestinese

Il 29 Novembre 1947 viene approvata dall’Assemblea Generale dell’Onu, la risoluzione 181 che prevedeva la partizione di quella che era la Palestina in due stati distinti, uno Stato ebraico e uno Stato arabo. Gerusalemme e le zone limitrofe (lo 0.8% del territorio), con i suoi luoghi santi alle tre religioni monoteiste, diventava zona separata e amministrata dall’Onu.

L’esodo della comunità ebraica, in cerca di pace dopo gli orrori dello sterminio nazista, si intreccia con il folle piano di ripopolamento dello Stato di Israele (nato formalmente il 14 maggio 1948) dando inizio al dramma del popolo palestinese.

A partire dal 1948 ha inizio l’esodo di centinaia di migliaia di palestinesi, che, espulsi dalle loro case, si riversano sul territorio degli stati arabi vicini: Libano, Siria, Giordania.

Alla fine del primo conflitto arabo-israeliano (luglio 1949) viene impedito alle popolazioni palestinesi di tornare alle proprie case.

I palestinesi espulsi o fuggiti dalla violenza durante questo periodo furono di fatto denazionalizzati dal parlamento israeliano nel 1952. Le loro proprietà furono confiscate e poi trasferite allo Stato di Israele a vantaggio ed uso quasi esclusivo della sua popolazione.

Ad oggi si contano più di cinque milioni di rifugiati palestinesi, di questi, un milione e mezzo vivono in circa 48 campi profughi.

Con questa giornata si vuole ricordare alla comunità internazionale che la questione della Palestina è ancora irrisolta, che milioni di persone vivono in condizioni di estrema precarietà, che intere generazioni di giovani palestinesi vengono private dei più basilari diritti e libertà, della sicurezza (pensiamo al territorio di Gaza), della serenità.

La giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese non deve essere motivo di ulteriore scontro e attrito, ma un momento di riflessione sul tormento di un intero popolo e un’intera nazione, affinché la condizione di sofferenza di milioni di persone non venga normalizzata e dimenticata.

Chiara Palumbo

#MondayAbroad

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Se chiudo gli occhi sono a… Berlino!

Sono le 10 dell’ennesimo giovedì di lockdown e, detta tra di noi, vorrei proprio essere altrove: vorrei provare nuovamente quell’adrenalina che si ha prima di un viaggio, quando la valigia sembra sempre troppo piccola e hai la sensazione che ti stai dimenticando qualcosa, quando devi ancora partire, ma la tua testa è già arrivata, quando ripensi a quante avventure hai già vissuto, anche se ti rendi conto che molte altre ti attendono ancora.

Sono le 10 dell’ennesimo giovedì di lockdown e, certo, magari non ho un biglietto in mano, ma ho Lorenzo che mi aspetta dall’altra parte del suo pc per raccontarmi una storia, trasportarmi nel suo viaggio con lui e io, cari amici, sono molto curiosa di ascoltare quest’avventura.

Chiacchierare di mattina non è sempre facile (un coffee pls!), ma la sua parlantina e la sua simpatia ti sanno coinvolgere talmente tanto che non vedo l’ora di ascoltare ciò che ha da dirmi.

Se Lorenzo chiude gli occhi, torna alla sua Berlino del 2018, la vacanza estiva che gli ha rubato il cuore e che, oggi, vi propongo.

Secondo lui, Berlino è una città con “cicatrici molto forti”, visto che è una metropoli nuova e moderna, decisamente atipica rispetto alle sue colleghe capitali europee, che si erge su un passato che sembra ancora riecheggiare lungo le sue strade. Proprio questo suo essere così diversa è ciò che maggiormente colpisce il nostro protagonista: grazie al giro turistico proposto dalla guida, Lorenzo è entrato a conoscenza di un passaggio, all’apparenza segreto e anche un po’ losco, che lo conduceva al ghetto ebraico… una meraviglia per gli occhi (visitare per crede ;)).

Berlino è anche un centro fondamentale per la storia moderna: il museo del terrore, ottimo per i forti di cuore e per chi è amante della storia e della verità, è il museo fondato sulla sede del quartier generale della Gestapo. Si presenta come un edificio grigio e triste, cupo e malinconico, il cui obbiettivo sembra essere quello di farti toccare con mano la storia di una tragedia e di farti rendere conto della realtà che regnava sovrana non troppo tempo fa.

Un altro punto cardine della città è la lapide del muro, ossia una lapide che riporta i nomi e i profili di tutti coloro che hanno cercato di scavalcare il famoso muro da est a ovest, “un monumento creato per ricordare e mai dimenticare. Senz’altro è stata una visione che mi ha provocato un notevole impatto”.

Per quanto riguarda la cucina, Lorenzo afferma che è molto semplice mangiar bene e la metropoli propone un’ampia scelta di culture; tuttavia si diverte comunque a nominare il Currywurst (dall’unione di curry e bratwurst, termine tedesco per salsiccia), un tipico cibo da strada nato in Germania, ma diffuso anche in Austria e in Svizzera. Si tratta di una salsiccia grigliata (o, in altre varianti, bollita) e tagliata a rondelle, condita da una salsa a base di concentrato di pomodoro o ketchup, spolverata di curry, e accompagnata da pane bianco o patate fritte.

Giungiamo alla conclusione della chiacchierata: Lori, merita tornare a Berlino?

Certo, non vedo l’ora di tornarci: oltre a essere sicuro che potrà mostrarmi e insegnarmi ancora molto, sarei contento di portarci anche la mia fidanzata!

Ringrazio molto Lorenzo per la sua disponibilità e vi invito a seguire la rubrica di sport di RadioUNINT, in onda tutti i martedì sui canali social ufficiali dell’iniziativa.

Che dire, amici, ringrazio molto anche voi per continuare a sognare con me finché non torneremo a viaggiare veramente!

Un besito,

Ilaria Violi