Per una cartografia di Roma: i meeting places e la riscrittura dello spazio postcoloniale

Roma: come rappresentarla in modo scientifico, ma tenendo conto dei flussi umani? Come rappresentarla in modo veritiero, ma insieme simbolico? E come si collocano le seconde generazioni (G2) all’interno dello spazio vuoto della cartografia?



Il più importante lavoro cartografico compiuto su Roma fu realizzato dall’architetto e cartografo Giovanni Battista Nolli nel 1748 per colmare l’assenza di una mappa particolareggiata della città. Nolli realizzò le panoramiche urbane attraverso una rivelazione scientifica ed oggettiva; da un lato il cartografo rappresentò in nero la serie ripetuta di luoghi di vita e di lavoro della città e in bianco le vie, le piazze, i monumenti ed ogni luogo di aggregazione pubblica nello spazio esterno. La descrizione cartografica dello spazio pubblico come indeterminato, vuoto e quasi “invisibile” esprime una relazione variabile di incertezza; tale esempio di cartografia esalta il vuoto come l’elemento dominante nello spazio pubblico e di conseguenza negoziabile grazie alla sovrapposizione di memorie e riscritture.

Nello stesso anno fu elaborato su Roma il Piano del Campo Marzio realizzato da Piranesi, attraverso la fusione di edifici esistenti all’epoca della mappatura e di edifici appartenenti al I e al II secolo, ormai demoliti o compromessi dalla successiva stratificazione della città. Piranesi realizzò dunque una mappa in grado di mescolare realtà, finzione ed immaginazione, connotando lo spazio urbano romano in maniera multiforme.

Lo spazio geografico e geopolitico di Roma, frutto dell’eredità imperiale e di una precisa epistemologia occidentale, come si nota da questi esperimenti di cartografia è dominato dalla presenza incontrastata del vuoto, dall’incapacità di rappresentare su carta i flussi umani e la complessità culturale di una città come Roma. Il vuoto possiede una duplice significazione: da un lato simboleggia il processo di rimozione della storia coloniale operato dai vincitori; dall’altro simboleggia un’opportunità di riscrittura alternativa che possa compensare la perdita di memoria storica.

Lo spazio urbano del vuoto e dell’assenza viene riscritto infatti dai nuovi soggetti dello scenario cittadino, che a loro volta rimaneggiano la sfera culturale e sociale; è per questo che i giovani della seconda generazione e i migranti assumono un ruolo chiave nella mappatura della città, ridefinendo lo spazio urbano e insieme facendosi testimoni di una narrazione alternativa, una narrazione “dei vinti” e la testimonianza di quelli troppo spesso marginalizzati e di tutti i “left behind”.

In merito a ciò la geografa culturale Doreen Massey, i cui studi si incentrano sul rapporto tra geografia e potere, ha suggerito la concettualizzazione degli spazi come prodotti delle relazioni sociali, come “meeting places”. Massey afferma l’impossibilità di definire in maniera netta i confini tra “dentro” e “fuori” nella spazialità; l’impossibilità, dunque, di assecondare la necessità tipicamente umana di ordinare e classificare. Lo spazio possiede identità plurime; non è mai un concetto monolitico ed è da considerare sempre in relazione alla congiuntura epocale in cui viene analizzato e ai rapporti di forza vigenti tra i gruppi che lo popolano.

Lo spazio urbano quindi si può leggere non come radicamento, isolamento e sedimentazione quanto piuttosto come commistioni di influenze interne tra loro sovrapposte. Il “meeting place” è uno spazio di incontro, di contaminazione, di riscrittura storica e geografica, di appropriazione dello spazio da parte delle comunità insediate; ed è in questo contesto che lo sguardo obliquo di un migrante o di una persona di seconda generazione rappresenta non uno svantaggio, ma una straordinaria risorsa.

Evelyn De Luca