La politica del posizionamento e il mapclash: quando la geografia non è mai neutrale

Con la liquefazione della società in epoca postmoderna decade un macro-sapere onnicomprensivo e le “grandi narrazioni” vengono delegittimate. L’uomo della società liquida si libera – o meglio, tenta di liberarsi – dal pesante fardello della tradizione e dai sistemi centenari a cui sa dire un sacro no, partecipando in maniera attiva alla costruzione della propria identità mutevole, ibrida e negoziabile.

Il clima culturale che si diffonde a partire dalla fine degli anni Ottanta con la svolta postmoderna investe inevitabilmente il campo interdisciplinare dei visual studies e porta alla denuncia delle immagini per il loro carattere assolutizzante e per il monopolio della realtà. La mappa, frutto di una esperienza umana multisensoriale, è in quanto tale una rappresentazione con un velo di ideologia e la trasposizione su carta degli ideali sviluppatisi all’interno di un preciso posizionamento geo-storico. L’approccio alle mappe geografiche, negli ultimi decenni, è sospeso tra ciò che Mitchell e Latour attribuiscono all’idolatria (la credenza nella “presenza” magica o divina delle immagini, che assicura il riconoscimento del loro potere) e all’atteggiamento iconoclastico (il desiderio di distruggere le immagini per rivelare la loro vacuità, la falsità della loro presunta vita). Questi due atteggiamenti assunti rispetto alla disciplina cartografica – da un lato l’idolatria del feticcio cartografico, dall’altro l’ossessione mirata ad una cartoclastia – demarcano la differenza tra la carriera del geografo e quella del cartografo.

Ciò è riassumibile nel neologismo mapclash, letteralmente lo “scontro sullo statuto della mappa”, che enfatizza la necessità decostruttiva affermata dai geografi postmoderni: la geografia non è una disciplina neutrale, e in quanto tale, sottintende dei paradigmi frutto di un sapere contestualizzato e non assoluto. Il termine mapclash trae ispirazione da iconoclash, coniato da Bruno Latour per sottolineare una furia di distruzione iconoclasta più volte apparsa nel corso della storia – ad esempio nel mondo bizantino, nella Riforma Luterana e durante la Rivoluzione francese – con l’intento di opporsi alla proliferazione delle immagini che nell’uomo hanno sempre generato grandi passioni. Mentre l’iconoclastia è preceduta da una piena consapevolezza dell’atto distruttivo e da un progetto chiaro e definito, l’iconoclash è invece uno status sospeso di difficoltà nella critica dell’immagine, oscillando in assenza di una posizione certa.

Lo spazio geografico, nell’ottica della crisi della rappresentazione postmoderna, non risulta più una architettura cognitivamente determinata ma solo probabile, non più verosimile ma solo efficace al suo scopo di conquista. L’esposizione di un individuo fin dai primi gradi d’istruzione alla rappresentazione cartografica comporta l’inconscia introiezione di codici e simbologie cartografiche percepiti come oggettivi. Qualsiasi produzione umana è vincolata – in maniera più o meno volontaria – ad un preciso retroterra culturale che però spesso appare legittimato da motivazioni di ordine naturale, in realtà inesistenti. Ogni forma di sapere è un sapere situato, inevitabilmente influenzato dal posizionamento storico e geografico di chi lo produce: ad esempio, dalla classe sociale di appartenenza, dalle credenze personali e dalle relazioni di forza della società in cui si muove. Nello spazio urbano governato da relazioni di potere, i gruppi di individui costruiscono confini fisici e simbolici per auto-definirsi attraverso l’esclusione dell’Altro e per legittimare la propria presenza. È necessario pertanto che la mappa, emblema delle istanze nazionaliste e del desiderio di affermazione geo-politica sull’Altro, venga sfigurata; alterata nei propri modelli, sia come atto simbolico sia come atto di rivendicazione.

Evelyn De Luca

Fonte:
https://www.ageiweb.it/geotema/wp-content/uploads/2019/11/Supplemento2019_8_Lo-Presti.pdf