La Birmania che (non) c’è
Da oltre quattro mesi dal giorno del colpo di Stato dei militari, il Myanmar si trova ancora a fare i conti con una situazione drammatica. Sabato scorso, il consiglio dei militari ha annunciato la sospensione di 125 mila insegnanti dal posto di lavoro, mentre si attende il processo di Aung San Suu Kyi, accusata di frode elettorale. Il golpe del febbraio 2021 resta una faccenda spinosa che si somma all’attuale drammaticità della situazione tra Israele e Palestina, sottolineando le sempre più nette divisioni all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e l’impasse della comunità internazionale. Yangon è da mesi teatro di scontri violenti tra i manifestanti ed i militari, con oltre 700 morti e migliaia di feriti.
Ad oggi, la situazione del Myanmar rappresenta l’ennesimo fallimento della comunità internazionale, incapace ancora una volta di assumersi la responsabilità di proteggere i popoli soggiogati da dittature e dalle violazioni dei diritti umani. Il Myanmar è un paese che da mesi vede una popolazione in rivolta contro un regime dittatoriale che ha rimosso di fatto un partito eletto democraticamente. Le stesse autorità partitiche hanno incitato i civili a resistere con ogni mezzo, favorendo la creazione del cosiddetto CDM – Civil Disobedience Movement, che in poco tempo ha inglobato medici, avvocati, insegnanti e giovani studenti. Questo gruppo ha dichiarato lotta aperta ai militari. Come riporta l’ISPI, questo fronte di resistenza ha ottenuto in pochissimo tempo ad invitare il popolo birmano ad insorgere. Durante la prima metà del mese di marzo i sostenitori del CDM avevano accolto l’appello del movimento chiudendo banche, uffici amministrativi, ed ospedali per protesta.
La posizione del Myanmar all’interno della comunità internazionale, inoltre, non contribuisce alla risoluzione del conflitto civile. Il paese era stato accusato nel 2017 del massacro della minoranza musulmana dei Rohingya. Di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia, la leader Aung San Suu Kyi si era dichiarata estranea ai fatti, ottenendo il permesso di condurre delle indagini interne per fare luce sulla questione. Già da allora, la comunità internazionale aveva giudicato l’azione dell’ex premio Nobel per la pace come mendace, accusandola di ‘whitewashing’. Al momento la Birmania si trova in una posizione di isolamento. La Cina ritiene il Myanmar un importante alleato soprattutto al fine di mantenere uno stretto controllo sullo stretto di Malacca. Intanto, all’interno del Consiglio di Sicurezza, la RPC supportata dalla Russia continua a praticare il buon vecchio ostruzionismo verso qualsiasi tipo di proposta di risoluzione, alla luce del classico principio della non ingerenza.
Dall’altra sponda, l’Occidente, dopo aver imposto sanzioni economiche nei confronti del Paese del sud Est asiatico, sembra poco interessato alle vicende in corso. Forse Il Myanmar è fisicamente troppo lontano (effettivamente poche persone saprebbero collocarlo su una cartina geografica), oppure forse c’è troppo timore che gli eventi in Birmania possano nuovamente gettare cattiva luce sul pessimo operato della comunità internazionale. Soprattutto in un momento come questo, in cui l’operato dei paladini della democrazia è già stato messo in discussione in Medio Oriente.
Martina Noero