Edizione speciale…. #VALE LA PENA

Il tempo sta volando e anche novembre volge al termine.
Si inizia a parlare di esoneri e appelli d’esame, ma mancano solo cinque venerdì a Natale quindi, consoliamoci. Nel frattempo, il mondo è diviso.
Una buona parte va a fuoco, è in rivolta. Mentre l’Italia annega sotto le incessanti piogge.

Martedì 19 Novembre l’UNINT ha avuto l’opportunità di partecipare ad un momento conviviale nell’ambito della Terza Missione.
Per chi non lo sapesse: si parla di “terza missione” dell’Università, per sottolineare che gli atenei devono assumere un nuovo fondamentale obiettivo accanto a quelli della didattica e della ricerca scientifica: il dialogo con la società.
In particolare, in questa occasione, l’UNINT si è messa in contatto con il mondo del disagio carcerario incontrando i dipendenti e i coordinatori della birreria artigianale “Vale la pena”.

Può creare indipendenza” è il loro motto e nasce nel 2014 all’interno della Onlus Semi di Libertà con l’obiettivo di contrastare le recidive delle persone in esecuzione penale. All’interno di questo progetto, detenuti ammessi al lavoro esterno vengono formati ed avviati all’inclusione professionale nella filiera della birra artigianale.

Noi di UNINT Blog e Radio UNINT abbiamo avuto l’opportunità di intervistare Oscar La Rosa, fondatore di Economia carceraria e Massimo, che ha vissuto in prima persona da un lato il disagio carcerario e dall’altro le opportunità date dal progetto.

Oscar, raccontandoci di “come siamo arrivati fin qui” ci ha detto che:

“Il carcere, è un luogo che esiste effettivamente in Italia, ed è un luogo di cui spesso e volentieri ci dimentichiamo. Lì dentro vivono delle persone, quindi c’è una componente umana che va ricordata in qualche maniera.
E in Italia, il carcere non funziona.
Qual è il fattore per vedere se una politica pubblica funziona oppure no? Si va a prendere il dato sulla “recidiva”. Si va a vedere se queste persone, una volta uscite dal carcere, tornano a commettere reato oppure no. Se tornano in galera significa che quegli anni spesi nel carcere non sono serviti a tanto, se invece non tornano significa che in quegli anni è stato fatto un buon lavoro.
Ecco, questo dato, in Italia, al 2005, è del 70%. Ovvero il 70% dei detenuti usciti dal carcere nel 1998 ci è rientrato nel 2005. Questo dato è molto alto, e la cosa che ancora più fa impressione è che da 20 anni non si hanno statistiche ufficiali sulla recidiva.
Parliamo quindi di dati vecchi, che il Ministero non ha più analizzato, e quindi ad oggi non sappiamo se siano aumentati o diminuiti. Ma da quello che possiamo vedere la situazione non è buona.

Uno degli strumenti fondamentali per contrastare questa tendenza, e il più efficace a mio avviso, è il lavoro carcerario. Questo assicura una pena dignitosa, perché il lavoro permette di avere un reddito e di continuare a contribuire in qualche maniera alla famiglia che è rimasta fuori, considerato anche che il 95% dei detenuti è di sesso maschile.
Il lavoro in carcere per come lo intendiamo noi, ovvero il lavoro alle dipendenze di una cooperativa, quindi all’esterno del carcere e non verso l’amministrazione carceraria, è fondamentale per far capire al detenuto le regole del mondo libero. Ovvero l’avere diritti e doveri nei confronti di un’altra persona, il datore di lavoro.

Lo stigma è un’altra questione preoccupante: chi esce dal carcere è socialmente segnato da questa esperienza, quindi un’azienda sarà sempre portata a compiere scelte alternative nel momento delle assunzioni.
Da qua nasce l’idea di economia carceraria, e di questo luogo.
Ci siamo chiesti: come combattiamo questo stigma? È la risposta più naturale è stata creare un posto dove possiamo parlare di questi temi. Partecipare a fiere, eventi, con i ragazzi che provengono dalla realtà carceraria e mettendoli in contatto, senza filtri, con la società civile.

Economia carceraria nasce un anno fa, con il primo Festival che si è svolto il 2 giugno 2018 a Roma. Ed è nata da un’idea molto semplice, forse banale. Ci siamo incontrati io e Paolo Strano (il fondatore della Onlus Semi di Libertà che ha curato e lanciato il progetto di “Vale la pena birra” ndr.) e ci siamo detti “Invitiamo le varie cooperative coinvolte nell’economia carceraria e creiamo una tavola rotonda per capire meglio com’è la situazione carceraria in Italia e quali sono le politiche pubbliche a riguardo”. In questo modo volevamo dimostrare alla società civile che all’interno del carcere esisteva una realtà produttiva, e anche accademica, dal grande potenziale.
Questo festival ha avuto un grande successo, soprattutto dal punto di vista mediatico, e quindi abbiamo sentito la necessità di iniziare a pubblicizzare e a vendere i beni prodotti all’interno delle varie carceri in Italia.
L’idea di base è che anche la vendita di un semplice pacco di biscotti può garantire ad una cooperativa la possibilità di assumere un nuovo detenuto.
Per questo, da un anno lavoriamo per vendere questi prodotti, sia nel nostro pub, ma anche all’interno di negozi equo-solidali.
Mai come in questo caso è vero il detto: “L’unione fa la forza”.
Perché poi, la vera sfida per noi è “integrare” e non ghettizzare, fondere insieme persone libere e persone detenute, per fare in modo che le une esaltino le altre.”

Come è nata l’idea della produzione di birra?

“L’idea della birra nasce da Paolo, il fondatore di questa Onlus.
È un fisioterapista, per motivi di lavoro va al Regina Coeli a curare i detenuti ed è rimasto colpito dal fenomeno delle “porte scorrevoli” ovvero, appunto, della recidiva.
Paolo ha individuato nel lavoro lo strumento migliore per contrastare questa tendenza ma era il 2012, ovvero il punto più alto della crisi occupazionale in Italia. Si accorge però che un settore occupazionale in crescita c’era, ed era quello della produzione di birra artigianale.
Basti pensare che nel 2012 i birrifici artigianali in Italia erano 300, mentre ad oggi abbiamo superato i 1400. Questo ha permesso di dare vita ad un progetto non solo formativo, ma soprattutto auto-sostenibile. Questa estate Birra Vale la pena è diventata un’azienda vera e propria con l’obiettivo di crescere e di assumere sempre più detenuti, ed ex detenuti.

Il momento più critico per un detenuto infatti non è quando è in carcere, ma quando sta per uscire.
Molte persone che sono passate da qui, dalla Onlus, erano spaventate dal “fine pena” perché a quel punto non avrebbero più potuto lavorare con noi. Per questo motivo abbiamo fortemente voluto lavorare “fuori dal carcere” per poter accompagnare questi ragazzi nel momento più tragico dell’intera esperienza, ovvero il momento dell’uscita.”

Massimo invece, ci ha raccontato della sua esperienza personale:
“L’uscita è il momento più critico ma dipende anche da chi ha i mezzi e da chi non. E non parlo di quelli esclusivamente materiali, economici.
All’uscita dall’istituto ho trovato delle amiche che mi hanno parlato della Onlus Semi di Libertà, per la quale ho subito iniziato a fare il volontario, per un certo periodo. Poi le nostre strade si sono dovute dividere perché io ho trovato lavoro, ma non appena è nato l’idea (Vale la pena) ho sentito il bisogno di farne parte, perché me ne ero innamorato.
Ad oggi stiamo cercando di destinare una parte di questo progetto al finanziamento del Pub e un’altra parte alla valorizzazione dei prodotti che vengono da Economia carceraria.
A me piaceva l’idea che qualcuno si dedicasse, senza interessi economici, a persone che avevano bisogno di abituarsi nuovamente all’ambiente esterno. Poi è ovvio, non possiamo aiutarne 100 mila, ma anche se ne aiutiamo 5, io sono felice.”

Alla nostra domanda “In che modo il mondo universitario da cui proveniamo potrebbe aiutarvi?”
La loro risposta è stata: “Da clienti, innanzitutto!”.
quindi andiamo a trovarli, numerosi, al Pub Vale La Pena Birra in VIA EURIALO 22.

Anche perché la birra è davvero buona… Parola di UNINT Blog!