Quando l’indifferenza genera violenza: l’escalation del conflitto israelo-palestinese

Botti, pietre, granate e fumogeni: questo è il contenuto dei video condivisi sui social ieri mattina, lunedì 10 maggio, della Spianata delle moschee a Gerusalemme. Secondo le autorità palestinesi, ci sarebbero centinaia di feriti a seguito dell’irruzione della polizia israeliana nella moschea di al-Aqsa. In alcuni video pubblicati su Twitter, si vede chiaramente l’interno della moschea che da luogo di preghiera si trasforma in teatro di scontro; l’ennesimo episodio di violenza dopo giorni di rivolta a causa dello sfratto di alcune famiglie palestinesi residenti a Gerusalemme Est. Nel frattempo, l’escalation di violenza si protrae anche al di fuori della Città Santa, dove gli scontri con Gaza hanno raggiunto un nuovo apice.

La storia del conflitto Israelo – Palestinese è contorta, lunga e soprattutto violenta. In seguito alla formazione del movimento Sionista, molti Ebrei iniziano ad emigrare verso la ‘Terra Promessa’. Questa forte ondata migratoria, fortemente supportata dalla dichiarazione Balfour, si concretizza alla fine della Seconda guerra mondiale, quando la Gran Bretagna decide di revocare il suo mandato in Medio Oriente e di lasciar alle due fazioni la spartizione del territorio. Agli Ebrei viene consentita l’istituzione di un vero e proprio Stato Ebraico in una terra, però, già promessa ed occupata da un altro popolo che rivendica la propria indipendenza.

Nella seconda metà degli anni Quaranta sono innumerevoli i tentativi di conciliazione tra le due parti. Nel 1946 le Nazioni Unite decidono di istituire un Comitato specifico incaricato di favorire un processo di negoziazione. Le proposte sono due: uno Stato ‘binazionale’, oppure una spartizione del territorio con l’istituzione di una ‘Gerusalemme internazionale’. Ambedue le proposte vengono rigettate da Arabi ed Ebrei. I primi considerano la presenza di Israele in Medio Oriente come un’occupazione illegittima. Il primo grande fallimento della comunità internazionale porterà alle guerre Arabo-israeliane, in cui l’indipendenza palestinese verrà supportata dai paesi della Lega Araba. La divisione alquanto precaria affida alle autorità palestinesi la gestione della Cisgiordania e della striscia di Gaza, mentre gli altri territori entrano a far parte dello stato di Israele.

Nel corso degli anni alcune famiglie israeliane iniziano a trasferirsi in alcuni territori controllati dalle autorità palestinesi, in particolare nella zona del West Bank. A mano a mano, inizia un’occupazione vera e propria di alcuni territori considerati imprescindibili anche per il popolo ebraico. Il conflitto diventa sempre più violento, coinvolgendo atti terroristici da parte di gruppi di liberazione palestinesi seguiti da risposte altrettanto violente da parte dell’esercito Israeliano. Secondo i rapporti di Amnesty International, Israele continua ad espandere stabilimenti ed infrastrutture illegali nella porzione di Cisgiordania occupata: azioni considerate non illegali da un da parte dell’amministrazione Trump, ma condannate dal Consiglio di Sicurezza ONU. Allo stesso tempo, perdura un blocco aereo, terrestre e marittimo applicato dall’esercito di Tel Aviv sulla striscia di Gaza.

La Palestina è in origine un territorio delimitato a Nord dalla penisola anatolica, a sud dall’Egitto, bagnata ad est dal Mar Mediterraneo e confinante ad Ovest con la Giordania. Questo lembo di terra da anni viene conteso, diviso, spartito da due popolazioni che rivendicano il proprio diritto di controllo totale. Da oltre 60 anni, numerosi civili ogni giorno perdono le proprie abitazioni, vengono feriti ed uccisi da raid aerei, atti terroristici, razzi. Una situazione che la comunità internazionale non è mai riuscita a gestire al fine di impedire i continui massacri, fallendo ogni tentativo di coesistenza pacifica. La questione palestinese deve essere risolta al più presto, perché ormai l’interesse dei pochi non può permettersi più di contare più delle vite civili stroncate da questo conflitto.

Martina Noero