Il risveglio
Un attimo prima ero inghiottito dall’oscurità, quello dopo dal buio assoluto, sospeso nello spazio piceo, privo di orizzonti da sognare. Poi i venti del fato soffiano sul fuoco della mia vita, riportando alla luce la vista. Steso per terra, sento la durezza del pavimento, regolare, liscio, né caldo, né freddo ma di un bianco alienante. Allora perché tremo? Sbalzi di temperatura? Non riesco a coglierne il senso. Forse ho la febbre, tuttavia l’atmosfera è perfettamente regolare. Eppure, c’è qualcosa che proprio non va, non i decimi ma panico. Me ne rendo conto presto, purtroppo o per fortuna. Il cuore comincia a battere all’impazzata e una tempesta di energia incoraggia i muscoli a reagire. Mi levo da terra in men che non si dica e, d’un tratto, il coraggio viene messo all’angolo da un dolore lancinante, seguito da una vibrazione atroce che trafigge il timpano. Così il buio mi avvolge, fitto e suadente. Per quanto tempo sia rimasto incosciente non saprei dirlo: secondi, minuti, ore? Non ha importanza. Mentre i pensieri vagano per la testa, mi scopro steso sul fianco, riflesso in una macchiolina giallastra. Esala un odore acre. Ora ricordo! Che stridio, che fracasso infernale…
Brividi lungo la schiena mi accompagnano e mentre striscio verso la parete, le viscere si aggrovigliano al propagarsi di quel suono. A stento trattengo il conato di vomito. Improvvisamente i dettagli riaffiorano dagli antri cerebrali. Lo svenimento. Grida, insopportabili vocine stridule. Risate levate a squarciagola. Malvagità senza nome. Non so perché una cosa del genere mi abbia disturbato tanto, non capisco più niente. La disperazione prende il sopravvento, cede il passo alla paura, gocce salate raggiungono la bocca, copiose, cristalline. Mi trovo in un luogo sconosciuto, anonimo e claustrofobico, con le mani sul capo, singhiozzante, stanco e stordito.
Tento di pulirmi il volto con la maglia, o meglio, con la divisa. Mentre ne afferro la manica con la sinistra, un dettaglio cattura la mia attenzione, luccica sotto il neon e scintilla sulla tuta grigio chiaro: una targhetta metallica con scritto qualcosa sopra. Metto a fuoco la flebile vista, è al contrario, sono lettere, cerco il rovescio. N-Ro-A? Aron. Aron! Il mio nome. Deve esserlo, per forza. È un inizio, ma l‘incisione non rivela altro. Che ci faccio qui? Mi guardo attorno, sembra tutto uguale. Col timore reverenziale di chi è caduto vittima di uno scherzo, mi alzo di nuovo in piedi, con le mani pronte a proteggere le orecchie. Faccio un passo, niente. Mi rassicuro. Nulla. Un respiro profondo ad occhi chiusi mi rinvigorisce l’animo.
Silenzio assordante.
Pretendo di sapere cosa è successo.
(continua…)
Aurora Molisso