Mass media, flussi migratori e la costruzione di un nemico: il caso della Carta di Roma
Cresciuti in famiglie immigrate ma parallelamente educati nel Paese di nascita, socializzati in spazi pubblici compositi a contatto coi mass media in un contesto iperconnesso, sono i membri della seconda generazione, che rispetto ai propri genitori sono culturalmente e socialmente più inseriti nelle istituzioni mainstream, pur scontrandosi sempre con discriminazione e pregiudizio. Ma sono loro, attualmente, la principale ricchezza per una riscrittura che proviene “dall’interno” del sistema e che investa il piano linguistico, culturale e sociale, per una percezione più giusta del fenomeno migratorio come dato strutturale delle società postmoderne e postcoloniali.
In una società iperconnessa, la sempre maggiore pervasività dei media ha portato nella vita quotidiana di ognuno immagini di popolazioni, etnie e categorie concettuali diverse che spettacolarizzate, adattate o sminuite a seconda delle esigenze, fino ad influenzare in maniera attiva l’opinione comune. La natura dinamica di questi immaginari antropologici – e la grande quantità di canali sfruttati – ha trasfigurato la realtà, creando immagini che preesistono alla concreta esperienza del singolo e che influenzano la percezione comune, creando un repertorio di pregiudizi dalla grande risonanza mediatica. La percezione comune è strettamente correlata al dibattito massmediatico e al mondo della comunicazione (ai mediascapes o mediorami, per utilizzare un termine interpretativo proposto dall’antropologo Appadurai), con il consolidamento di luoghi comuni e l’evocazione di una vasta gamma di associazioni mentali che fanno leva sugli istinti di sopravvivenza, sul sentimento di paura e incertezza, sul senso di appartenenza e sulla necessità della costruzione di un “nemico”.
Attraverso la costruzione della paura e lo stigma dell’infamia mediatica, si costruisce infatti un nemico esterno, che crea una maggiore compattezza interna; come affermato da Umberto Eco in “Costruire il nemico e altri scritti occasionali” un nemico è necessario per costruire la propria identità e per creare un ostacolo rispetto al quale misurare il proprio sistema valoriale e rispetto cui dimostrarsi vincenti. Il nemico per eccellenza – quello più adatto a canalizzare l’odio e la paura verso l’alterità – è colui che si fa portatore di tradizioni diverse, di una lingua diversa, di un colore diverso, e che sembra minare l’integrità sociale. In questo senso i media non solo sono interpreti dell’opinione pubblica ma, quel che è più importante, fanno opinione pubblica, soprattutto nella fase storica in cui le agenzie di socializzazione tradizionali (la scuola, la Chiesa, i partiti) sembrano non possedere strumenti adeguati a intervenire su un pubblico di massa.
Dalla necessità di monitorare gli immaginari che sono veicolati dai mass media nasce l’iniziativa della Carta di Roma; fondamentale è evitare tutti i rigurgiti di razzismo e xenofobia che – spesso involontariamente – vengono tramandati attraverso i principali canali di comunicazione. La Carta di Roma nasce per scelta dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) come conseguenza della strage di Erba nel gennaio 2007, spettacolarizzata e ampiamente dibattuta con la diffusione di una rappresentazione alterata dei personaggi coinvolti e una loro stigmatizzazione. La Carta di Roma è infatti un protocollo deontologico redatto congiuntamente dal sindacato dei giornalisti e dall’Ordine dei giornalisti nel 2008, per ribadire la responsabilità morale e civile della figura del giornalista; una giusta comunicazione e una giusta terminologia relativamente al tema dell’immigrazione e dell’asilo diventa così un obbligo deontologico.
Nei principi enunciati nella Carta, c’è la necessità di evitare comportamenti superficiali e non corretti che possano suscitare allarmi ingiustificati, anche attraverso improprie associazioni di notizie compromettendo le categorie sociali coinvolte e la percezione di esse nell’opinione pubblica, con informazioni imprecise o distorte. Il corretto uso terminologico, infatti, non lede in alcun modo la libertà di informazione; al contrario, veicola una informazione corretta, neutrale, con l’uso di termini giuridicamente appropriati al fine di restituire al lettore la massima aderenza alla realtà dei fatti, salvaguardando tutte le categorie sociali e decostruendo un nemico solo immaginato.
Evelyn De Luca