Educare e parlare: il linguaggio inclusivo e le identità di genere

Come si può includere se il discorso collettivo non si origina dalla lingua, che performa il pensiero e che crea nuove categorie, nuovi border thinking ibridi, mutabili, flessibili, lontano da ogni categorizzazione e cristallizzazione?

Estendere la lingua italiana, oggi, a tutte le categorie sociali consente di superare ogni tipo di limitazione caratterizzante e tutto ciò che ne consegue: al pari dell’operazione linguistica e della Carta di Roma per il corretto uso mediatico delle parole, il discorso di genere rappresenta una delle tematiche – se non la principale – connessa all’inclusività, verso una lingua che sia in grado di esprimersi e riferirsi senza menzionare il genere e parlando anche a chi non si identifica nel classico sistema binario, ormai obsoleto e da decostruire.

Ufficialmente nel 2008 il Parlamento europeo è stato una delle prime organizzazioni internazionali ad adottare linee guida multilingue sulla neutralità di genere nel linguaggio: un linguaggio “neutro sotto il profilo del genere” indica, in termini generali, l’uso di un linguaggio non sessista, inclusivo e rispettoso del genere. La finalità di un linguaggio neutro dal punto di vista del genere è quella di evitare formulazioni che possano essere interpretate come di parte, discriminatorie o degradanti, perché basate sul presupposto implicito che maschi e femmine siano destinati a ruoli sociali diversi. L’uso di un linguaggio equo e inclusivo in termini di genere, inoltre, aiuta a combattere gli stereotipi di genere, promuove il cambiamento sociale e contribuisce al raggiungimento dell’uguaglianza tra donne e uomini.

La lingua italiana, al pari delle altre lingue romanze e delle lingue slave, si caratterizza per il genere grammaticale: in tali lingue, ogni sostantivo ha un genere grammaticale e il genere dei pronomi personali normalmente concorda con quello del nome cui si riferiscono. Dato che è quasi impossibile, da un punto di vista lessicale, creare forme neutre sotto il profilo del genere che siano ampiamente accettate a partire da termini già esistenti in queste lingue, nel linguaggio amministrativo e politico sono stati messi a punto e raccomandati approcci alternativi.

A livello strutturale, alcune lingue risultano più neutre; quelle derivanti dal latino hanno però, in molti casi, escluso progressivamente il genere neutro e tramandato delle forti differenze di genere risalenti all’epoca classica. Cambiare struttura linguistica e adattare i parlanti a un nuovo genere è però un percorso complesso, che necessita lunghi tempi per far sedimentare i cambiamenti linguistici. La soluzione linguistica alternativa quindi, che possa sopperire alle lacune senza sradicare il modus operandi e pensandi dei parlanti, appare l’operazione più idonea per una lingua in costante evoluzione, che deve adattarsi alle necessità sociali della sua popolazione.

Normalmente l’italiano prevede l’obbligo di una scelta binaria nel parlare, e prevede anche casi in cui si usa il maschile singolare quando la persona non è necessariamente maschile ma di genere sociale ignoto. Il maschile dunque viene utilizzato per persona o persone indefinite, ed anche nel casi di ruoli e professioni. L’italiano prevede anche il maschile per indicare il gruppo, anche se questo gruppo è in maggioranza femminile: il maschile sovra-esteso.

La questione di genere della lingua, per quanto tremendamente attuale, fu già affrontata nel 1987 dalla linguista Alma Sabatini in Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, notando come il linguaggio sia intrinsecamente legato all’evoluzione della società e che la nominazione sessuata del mondo rappresenti una realtà fittizia senza corpi, nonostante la corporeità e la fisicità siano indispensabili per la creazione e per l’evoluzione di una lingua: rifiutare il linguaggio inclusivo di geenere è così un diniego delle differenze sessuali, e una non accettazione della lingua connessa al sesso, con un lessico sessuato e politicamente, socialmente e culturalmente orientato.

L’errore in cui si incorre spesso è dunque quello di appiattire il linguaggio sulla base di un presunto universalismo e di una neutralità, con un uso indiscriminato del maschile, senza ampliare gli orizzonti linguistici, considerando già il genere femminile come una appendice superflua ed escludendo invece – senza riconoscimento categoriale – tutti coloro che non si identificano in nessuno dei due generi.

Lesbica, gay, bisessuale, transessuale, asessuale, non-binary, la lista delle terminologie relative ai vari orientamenti sessuali e alle identità di genere è in continua espansione, sostanzialmente perché la nostra comprensione di queste identità è in costante crescita. Certo, la terminologia LGBTQ e il linguaggio queer hanno fatto molta strada rispetto al loro passato buio, ma la ricerca di una piena inclusività su come parliamo delle comunità queer è ancora in corso (del resto, infatti, anche descrivere le persone LGBTQ+ – laddove il + sta a indicare quelle identità non incluse nell’acronimo – come comunità comporta dei problemi).

Ad ogni modo, con la maggiore informazione e inclusione riguardo le molteplici identità di genere esistenti, molte persone si chiedono quale sia il modo più corretto per rivolgersi agli altri, in un’era dove il linguaggio offensivo viene visto come segno di profonda ignoranza. La maggior parte delle considerazioni sul linguaggio più corretto da utilizzare riguarda naturalmente l’area tematica Trans*, dove il binarismo e la cisnormatività (il dare per scontato che tutti si identifichino col genere assegnato alla nascita) estremamente presenti nel linguaggio di tutti i giorni può diventare qualcosa di molto irrispettoso. Per quanto riguarda le persone trans binarie (ovvero coloro la cui identificazione va da maschio a femmina o viceversa) il discorso a livello di pronomi e di genere negli aggettivi è relativamente semplice: la persona va sempre e comunque, senza eccezioni, considerata del genere con cui si identifica, regolando il linguaggio di conseguenza.

Per quanto possa sembrare un concetto semplice, in realtà è uno degli errori più frequenti nel linguaggio transfobico è quello di definire, ad esempio, donne trans con articoli e pronomi maschili, persino nelle testate giornalistiche e nelle comunicazioni ufficiali, e di seguito vedremo alcuni esempi.

Infatti, la transfobia nel giornalismo italiano resta, purtroppo, molto diffusa in alcune testate giornalistiche, motivo per cui è necessario sensibilizzare il pubblico e soprattutto i giornalisti a questa tematica, al fine di scrivere correttamente di transgenerità. Logicamente non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, però vediamo ciò che accade in alcuni casi, riportando alcuni esempi concreti che ci aiutano a capire come scrivere di transgenerità.

Facendo un giro su Google News è facile rendersi conto di come, ogni giorno, svariate testate locali e nazionali utilizzino le parole “trans”, “transessuale” o “transgender” come sostantivi, anche per raccontare notizie di cronaca dove l’identità di genere dovrebbe essere irrilevante.

In molti casi, se si tratta di una donna trans, il termine “trans*” sottintende – ricalcando uno stereotipo ormai stantio – il lavoro di sex worker della protagonista della vicenda. Le donne trans, inoltre, vengono spesso misgenderate, attraverso pronomi maschili, e violate della propria privacy e dignità con la pratica del deadnaming.

Nello specifico, misgendering significa appellare la persona transgender con l’articolo, la desinenza e il pronome che non corrisponde alla sua identità di genere. Quest’ultima, si ricorda, non è qualcosa che “si immagina” e tantomeno è un capriccio che fa dire a una persona “io voglio essere così”: ha a che fare, infatti, con chi siamo e chi sappiamo di essere.

Invece, per deadnaming s’intende la pratica secondo cui le persone transgender vengono appellate con il loro vecchio nome (il dead name, appunto), vale a dire il loro nome prima del cambio di identità sessuale. Purtroppo, questa pratica è ancora piuttosto diffusa, e molti giornalisti che utilizzano il dead name (può accadere intenzionalmente oppure no) spesso si giustificano dicendo: “Se non scrivo il deadname non si capirà di chi sto parlando”.

Questo non è assolutamente vero, dato che nel caso di personaggi famosi ci si può facilmente riallacciare alla loro carriera, attuando così una perifrasi che rispetti la sensibilità della persona in questione. Pensiamo, ad esempio, ad Elliot Page: in questo caso si può facilmente dire ed è sufficiente dire “l’attore di The Umbrella Academy”. Invece, nel caso in cui la persona cui si sta riferendo l’articolo sia non nota, ma viene intervistata proprio per una narrazione sulla transgenerità, allora il problema non è nemmeno da porsi, e il deadname non ha alcun senso in tal caso, se non quello di soddisfare la curiosità invadente e indelicata del lettore.

Non dimentichiamo, inoltre, l’importanza dell’utilizzo corretto dei pronomi quando si parla di transgenerità: ad esempio, parlando di un uomo/ragazzo trans bisognerà utilizzare sempre e comunque il maschile, e lo stesso vale per le ragazze/donne trans.

Con riferimento ai pronomi, un grandissimo NO a frasi come “La storia del ragazzo che ora è donna” in riferimento a una donna trans, o ancora “Prima lui lavorava” con riferimento a una donna trans; e SI invece a “La storia di Claudia, donna trans” in riferimento a una donna trans.

Infine, è bene sottolineare il concetto di spersonalizzazione con riferimento alla transgenerità: infatti, i termini transgender e trans sono aggettivi, non sostantivi, sebbene ancora oggi molte persone continuino a utilizzarli come tali. Si veda, ad esempio, la frase che è stata scritta in una testata giornalistica “bagni per trans a scuola”. Tale espressione è infatti sbagliata perché riduce il soggetto al solo fatto di essere transgender e, inoltre, il termine transgender è un termine ombrello, che da solo significa tutto e niente, dato che ne fanno parte, infatti, uomini transgender, donne transgender, persone non binarie, persone intersex, persone genderqueer e altre identità. Dunque, come rifare la frase appena esposta in modo inclusivo? In questo modo: “Bagni per persone transgender”.

È evidente, comunque, che abbiamo analizzato solo una piccola parte dell’inclusività linguistica con riferimento alla comunità LGBTQ+ e sebbene il discorso sia molto più ampio, risulta chiaro come una sensibilizzazione in questo senso sia fondamentale, così da portare avanti il cambiamento linguistico, dato che l’inclusività linguistica non è un capriccio, ma una necessità, ed è per questo che, individualmente e collettivamente, possiamo e dobbiamo fare dei passi in avanti e attuare dei cambiamenti, che anche se possono sembrare piccoli, in realtà si rivelano dei grandissimi cambiamenti per molte persone.

Evelyn De Luca, Federica Zunino

Fonti:

Francesco Cicconetti – Vademecum del* giornalista inclusiv*

https://www.sinapsi.unina.it/linguaggiocorretto_bullismoomofobico

Guidelines LA NEUTRALITÀ DI GENERE NEL LINGUAGGIO usato al Parlamento europeo, GNL_Guidelines_IT-original.pdf (europa.eu)