Linguaggio inclusivo e disabilità – per una parola che non sia muro ma ponte

Per moltissimo tempo le persone con disabilità sono state considerate e definite soltanto in base alla loro disabilità. E non solo attraverso storie e narrazioni che hanno sempre messo al centro la presenza di quella “differenza”, che finiva per diventare un tutt’uno con la persona, facendone scomparire ogni altra qualità e caratteristica, ma, prima ancora, attraverso le parole usate per definirle.

Disabile, diversamente abile, invalido: sono moltissimi i termini usati per definire le persone con disabilità, e anche le definizioni nate con le migliori intenzioni sono passate in breve tempo dalla parte del torto, perché percepite da alcuni come scorrette o offensive.

Oggi “persona con disabilità” viene considerata come la formula corretta, ma trovare le parole giuste, spesso, non è facile, a maggior ragione quando ad andare di mezzo c’è la sensibilità dei singoli.

Nella maggior parte dei casi, la storia e la vita delle persone disabili viene raccontata perlopiù attraverso i parenti, gli operatori sanitari e persino da estranei, raramente è stato dato ascolto e spazio alle loro voci. È quindi il momento che prendano il posto che spetta loro, che scelgano come definirsi e ci indichino la via più giusta verso l’inclusione. Per questo motivo appare evidente come le parole – anche e soprattutto in questo contesto, e come anticipato – rivestano un ruolo assolutamente cruciale, e come l’impiego di un linguaggio inclusivo sia necessario. A tal proposito, con riferimento proprio al linguaggio inclusivo nel caso della disabilità, è importante conoscere due concetti fondamentali, ossia il person-first-language e identity-first-language, laddove uno pone l’accento sulla persona, mentre l’altro si concentra sul concetto di disabilità come identità.

Nel dettaglio l’espressione “persone con disabilità” è definita person-first language poiché mette al centro prima di tutto la persona e poi come caratteristica la disabilità. Tale espressione, e dunque questo concetto, viene utilizzata per rispettare la persona, concentrandosi sul suo essere ed evitando un processo di deumanizzazione (ridurre la persona alla sua caratteristica di disabilità).

L’espressione “persone disabili” si riferisce invece all’identity-first language e si basa sull’idea del riconoscimento della disabilità come categoria identitaria. La scelta di impiegare questo termine è adottata soprattutto da attivisti disabili, con l’intento di rivendicare lo status di minoranza oppressa.

Possiamo dire però che nel linguaggio giornalistico e dei mass media sarebbe più opportuno utilizzare il person-first language in linea generale, mentre si potrebbero scegliere l’identity-first language laddove si voglia alludere allo status di minoranza oppressa di persone disabili, specificando, inoltre, che la scelta di impiegare quest’ultima espressione è stata dettata dalla volontà di diffondere consapevolezza in merito al tema ed educare i lettori al corretto uso del linguaggio inclusivo.

Dunque, l’adozione di un linguaggio corretto per definire le persone con disabilità è infatti

una questione prioritaria oltre che un impegno che sempre più organi, istituzioni e persone vogliono sostenere e diffondere. Questo vale non solo per le istituzioni internazionali, ma anche a livello nazionale.

Infatti, in Italia l’Agenzia delle Entrate ha pubblicato la guida online “Disabilità, iniziamo dalle parole” pensata per promuovere un linguaggio più inclusivo. In breve, la guida è rivolta in particolare al personale dell’Agenzia, ma l’obiettivo è comunque quello di costituire una realtà – in generale e non solo all’interno dell’Agenzia – più positiva, equa e partecipata, in cui ogni persona possa sentirsi accolta, e il tutto passa dalle parole. Nella guida è possibile trovare alcuni suggerimenti per l’impiego di un linguaggio inclusivo con riferimento alla disabilità, tra cui quello di non identificare una persona con la sua disabilità -evitando quindi l’imposizione di etichette tendenti alla spersonalizzazione -, non utilizzare il termine handicappato (che designa non la disabilità, ma lo svantaggio che deriva dal fatto che la società non è progettata a misura di chi ha le caratteristiche fisiche, cognitive o psichiche non maggioritarie), o ancora, evitare l’impiego di un linguaggio compassionevole o pietistico.

Questo progetto mira alla realizzazione di un Piano triennale di azioni positive adottato dall’Agenzia, per veicolare un’informazione corretta sul tema dei linguaggi appropriati da usare quando si parla di e con le persone con disabilità. Lo spunto di partenza è dato dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, che parla di pari opportunità, accessibilità e “accomodamenti ragionevoli”, contrasto a discriminazioni, stereotipi e pregiudizi e riconoscimento del contributo delle persone con disabilità nell’ambiente lavorativo.

Nel 2006 infatti la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (CRPD) ribadisce che la disabilità è legata al rapporto fra persona e ambiente. Nel preambolo si legge infatti che “la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali e ambientali che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri”. Il cuore del problema non sta dunque nella condizione soggettiva dell’individuo, ma nei contesti sociali e culturali in cui la disabilità si manifesta. Ecco che viene richiamata l’attenzione sulla responsabilità collettiva che da ciò deriva: istituzioni e società civile sono chiamate a rimuovere o ridurre la disabilità, ed educazione e lavoro sono due ambiti particolari cui la Convenzione fa riferimento invitando a un impegno preciso.

Come affermato dal direttore dell’Agenzia Ruffini, “I passi da percorrere, anche in Agenzia, per assicurare alle colleghe e ai colleghi con disabilità piena partecipazione sul posto di lavoro sono molti, e la pandemia, con le misure di contenimento del contagio che ne sono conseguite, ha peraltro limitato le iniziative interne rivolte all’inclusione e ad accrescere l’accessibilità. Questa iniziativa vuole rappresentare dunque una ripartenza. Iniziando dalle parole, che sono la veste dei nostri pensieri”. Come affermato nel testo, la normativa italiana antecedente la legge n. 18 del 3 marzo 2009, che ha ratificato la Convenzione ONU, utilizzava varie terminologie (portatori di handicap, diversamente abili, persone handicappate), ancora oggi replicate nei testi di circolari ministeriali e in numerosi e pubblici documenti amministrativi, parole che molto spesso, nonostante le intenzioni, appaiono obsolete, se non persino sminuenti, offensive e lesive della dignità della persona. Per favorire l’inclusione e promuovere la tutela dei diritti delle persone con disabilità, si moltiplicano le istanze affinché, a partire dagli atti delle Amministrazioni Pubbliche, si utilizzi solo la locuzione persona con disabilità.

Si veda ad esempio la raccolta firme lanciata a giugno 2021, cui hanno aderito numerose personalità appartenenti al mondo della cultura, dello spettacolo e dello sport, nonché al mondo associativo (ad esempio la Presidenza della FISH, Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), in cui si propone all’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità di far diramare al Dipartimento della Funzione Pubblica una circolare che raccomandi l’uso di una terminologia conforme a quella utilizzata nella Convenzione ONU. L’istanza sottesa all’iniziativa va ben oltre.

La questione linguistica, puntando direttamente alla diffusione della cultura sulla disabilità, mira così a diffondere l’idea di una disabilità che non è patologia, sottolineando che non esistono normoabili e che, soprattutto, le parole devono farsi ponti e non muri.

Evelyn De Luca, Federica Zunino

Fonti:

https://www.agenziaentrate.gov.it/portale/disabilit%25c3%25a0-iniziamo-dalle-parole