#25Novembre: Giornata internazionale per eliminare la violenza contro le donne

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“Le donne hanno sempre dovuto lottare doppiamente. Hanno sempre dovuto portare due pesi, quello privato e quello sociale. Le donne sono la colonna vertebrale delle società.” – Rita Levi-Montalcini

MondayAbroad cambia rotta: in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (deliberata nel 1999 dalle Nazioni Unite), vorrei soffermarmi sulla grande importanza del gentil sesso, anche se non sempre riceviamo le attenzioni adeguate. L’evoluzione del ruolo e dello status della donna ha mutato profondamente la nostra società nella sua struttura più profonda ed essenziale, basti pensare, per esempio, all’antica differenza tra donna schiava e donna libera, tipica del mondo latino.

La violenza contro le donne è ritenuta violazione dei diritti umani e coinvolge donne e bambine, anche se non è da confondere con la violenza di genere, la quale riguarda anche i minorenni, come, per esempio, nei casi di violenza assistita.

L’articolo 1 della Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne approvata dall’ONU nel 1993 descrive la suddetta violenza come: «Qualsiasi atto di violenza per motivi di genere che provochi o possa verosimilmente provocare danno fisico, sessuale o psicologico, comprese le minacce di violenza, la coercizione o privazione arbitraria della libertà personale, sia nella vita pubblica che privata.»


Esistono, ahimè, troppi tipi di violenze, tra cui, per esempio, la violenza domestica (che rappresenta il comportamento abusante di uno o entrambi i compagni in una relazione intima di coppia che, in molti casi, sfocia nell’omicidio, esercitata soprattutto attraverso minacce, maltrattamenti fisici e psicologici, atti persecutori, abusi sessuali ecc.) e la violenza economica (consiste nel controllo del denaro da parte del partner, nel divieto di intraprendere attività lavorative esterne all’ambiente domestico, al controllo delle proprietà e al divieto ad ogni iniziativa autonoma rispetto al patrimonio della donna).


In moltissime società tradizionali, la donna si trova in una condizione di inferiorità in famiglia, che spesso è stabilita dalla legge: nella maggior parte dei paesi arabi la poligamia è ancora ammessa; in Arabia Saudita una donna non può viaggiare all’estero senza il permesso scritto di un parente maschio. In India e in Cina, invece, si concretizza l’aborto selettivo (ossia l’obbligo di partorire solo figli maschi in quanto riconosciuti e accettati socialmente).


A partire dagli anni settanta del XX secolo il movimento delle donne e il femminismo in Occidente hanno iniziato a mobilitarsi contro la violenza di genere, sia per quanto riguarda lo stupro sia per quanto riguarda il maltrattamento e la violenza domestica. Il movimento ha messo in discussione la famiglia patriarcale e il ruolo dell’uomo nella sua funzione di “marito/padre-padrone“, non volendo più accettare alcuna forma di violenza esercitata sulla donna fuori o dentro la famiglia. In questi anni vengono istituiti i primi Centri antiviolenza per le donne vittime di violenza (anche se in Italia nasceranno solo a fine anni Novanta).


Per quanto riguarda l’istruzione, invece, si parla soprattutto di analfabetismo sviluppatosi nei paesi in via di sviluppo africani: benché la percentuale di analfabeti sia molto diminuita negli ultimi decenni, sia tra i maschi sia tra le femmine, le differenze rimangono molto forti, tant’è che sono ancora circa la metà le donne analfabete, mentre gli uomini sono solo il 30%. Le cause di questa diseguaglianza sono riconducibili ad un retaggio culturale e sociale legato a modelli tradizionalmente patriarcali, secondo i quali la donna deve occuparsi delle mansioni legate alla casa, al benessere dei familiari, alla cura dei genitori anziani e dei bambini. Detto ciò, è facile proseguire il tema trattato arrivando a parlare delle discriminazioni in ambito lavorativo: molte donne, non solo delle culture africane, decidono di dedicarsi esclusivamente alla casa ed alla famiglia. Ma che cosa succede a chi, invece, ha un altro sogno?


Art. 37 Costituzione: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.


Negli anni, dalla conquista del diritto al voto, le donne hanno sempre più visto crescere i loro diritti e il loro ruolo nella società. Nulla di più vero ma anche nulla di più contestabile. In Italia non vi sono “palesi” discriminazioni, né sul posto di lavoro né nella vita ma guardando più a fondo i dati si scopre che solo il 22% dei dirigenti in Italia sono donne, contro il 78% degli uomini (Fonte: Il Sole 24 Ore).


econdo il rapporto dell’Osservatorio di JobPricing, il differenziale tra le buste paga di maschi e femmine è di quasi 3.000 euro lordi annui. L’Osservatorio la chiama una “discriminazione salariale tout-court”, slegata dunque dalla collocazione in settori meno “ricchi” e dai ruoli. In più c’è un altro fatto: le donne sono prevalentemente occupate in settori non industriali (servizi, servizi finanziari, commercio), dove però molto spesso i differenziali retributivi sono ancora più elevati. Dove le donne sono di più, dunque, i loro stipendi sono comunque più bassi di quelli dei colleghi uomini. A fronte di un dibattito acceso e ricorrente sulla questione della parità di genere, il principale indicatore, e cioè il livello retributivo, marca ancora un netto divario fra i sessi. Tutto questo stona con un principio: la parità di genere rappresenta uno dei valori fondamentali dell’Unione Europea. Eppure, sul lavoro la realtà è diversa. Nella Ue le donne, nei vari settori economici, guadagnano in media oltre il 16% in meno all’ora rispetto agli uomini. Molti ancora oggi pensano che le imprese non tendano a discriminare le donne perché sono obbligate dalla legge e dai contratti collettivi a pagare lo stesso salario a donne e uomini che svolgono la stessa mansione, difatti più alto è il ruolo ricoperto, più grosso è il divario, fino a giungere alle retribuzioni più alte dove il suddetto divario arriva al 17% in meno degli uomini.


Eppure è un vecchio problema, ancora irrisolto: risale, difatti, al 1975 la direttiva sulla parità retributiva tra uomini e donne della Comunità Europea, ma a oltre quarant’anni di distanza dall’introduzione dei primi provvedimenti legislativi per la parità di stipendio, il differenziale salariale per sesso (gender pay gap) rimane un aspetto cruciale che le donne si trovano a dover affrontare nel mercato del lavoro. La differenza salariale di genere entra, dunque, a pieno titolo nelle agende di lavoro di tanti Stati, dopo che l’Unione Europea da anni ha posto l’accento sul tema, tanto da creare un progetto ad hoc per sensibilizzare i Paesi membri: in Gran Bretagna, per esempio, le grandi aziende sono obbligate a pubblicare i dati sul differenziale di genere nei salari e nei bonus dei loro dipendenti.

Insomma, le donne hanno sempre dimostrato di essere pazienza e intraprendenza, maternità e orgoglio, figure fondamentali non solo per uno scopo riproduttivo. Oggi, giornata contro la violenza rivolta nei loro confronti, voglio cogliere l’occasione per incoraggiare tutte coloro che hanno fiducia nel domani: non siamo sole, non dimentichiamolo mai.
Siamo potenza, energia e luce; siamo passione, dolcezza e sensualità; siamo intelligenza, aspirazione e coraggio; siamo bambine, ragazze e adulte. Siamo questo e molto più.

Ilaria Violi

La caduta del Muro di Berlino: trent’anni dopo, un bilancio

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La caduta del Muro di Berlino è un vero punto di svolta della storia europea e mondiale. Fu evento inaspettato, non previsto dalle élites europee, ma ripensato in prospettiva storica possiamo oggi dire che il suo verificarsi derivò da cause di medio e lungo periodo. Non poco pesò l’avvento di Michail Gorbačëv alla segreteria del Pcus. Egli tentò di riformare l’irriformabile con le sue idee di Perestroika e Glasnost. Oggi sappiamo dagli archivi quanto brancolasse nel buio, assieme al suo partito e all’intero movimento comunista internazionale. Nonostante ciò, la sua figura conferma il ruolo che spesso giocano le personalità nella storia, e ce ne furono di numerose in quel decennio che precedette il 1989: da Reagan alla Thatcher, da Giovanni Paolo II a Craxi, da Mitterand a Lech Walesa e molti altri coraggiosi dissidenti anticomunisti. Tutti loro furono, ciascuno a suo modo, fattori di dinamismo e accelerazione di processi già in corso.


Dalla periferia dell’impero sovietico s’innescò sin dalla primavera di quell’anno un processo di sgretolamento che culminò a Berlino il 9 novembre di trent’anni fa. La Cortina di ferro subì infatti la prima breccia il 2 maggio 1989 in Ungheria, a Hegyeshalom, 170 chilometri da Budapest e 80 da Vienna. 345 chilometri di reticolati, fortificazioni, bunker e muri lungo tutto la frontiera con l’Austria. Accadde proprio là dove oggi si ricostruiscono muri e fili spinati, a testimoniare a trent’anni di distanza che quella stagione ha mancato nei decenni seguenti una serie di passaggi cruciali. Uno tra questi è stato il non affiancare all’allargamento della comunità europea, processo sicuramente favorito dai fatti del 1989, la costruzione di una politica estera e di difesa comune. Oggi assistiamo pertanto ad un’unione europea che regge ad Est, e non solo, fintantoché reca vantaggi sul piano del rilancio delle singole economie nazionali, e solo se si accompagna a politiche autonome, mosse da interessi nazionali e non comunitari, sul piano della sicurezza interna ed esterna di fronte ai flussi migratori di massa.


L’89 ha segnato la fine del sistema bipolare, che diventò definitiva nel 1991 con il crollo dell’Urss. Ad un periodo di isolamento degli Stati Uniti e all’illusione di un nuovo ordine mondiale unipolare è seguito l’ultimo ventennio, inaugurato dall’11 settembre 2001, in cui la globalizzazione ha dimostrato di non essere governabile nel nome esclusivo del mercato e della tecnologia. L’89 fu anche lo sbocco di un decennio ottimista, gli anni Ottanta, e l’avvio di un altro ancor più ottimista, quasi utopistico. Gli anni Novanta cullarono l’utopia della liberaldemocratizzazione del globo. Ciò detto, in quel decennio si ebbe un’indubbia crescita economica europea tanto ad Est quanto ad Ovest, e più ad Est che ad Ovest. Una delle poche eccezioni fu proprio l’Italia, il cui sistema politico implose, un po’ per effettiva incapacità di autoriformarsi, un po’ per la convinzione delle nostre élites nazionali che solo un vincolo esterno potesse salvarci. Di qui, inizialmente, una maggiore infatuazione europeista nel nostro Paese rispetto ad altri, salvo poi vederlo tramutare negli ultimi sette-otto anni in uno di quelli con più marcati fenomeni di rigetto politico del processo di integrazione. L’Italia come uno dei laboratori del nuovo populismo euroscettico e sovranista. Più in generale, dopo il 2001 e la grande recessione del 2007-2008 è subentrato un periodo di pessimismo e depressione che è figlio tanto dell’insicurezza rispetto al terrorismo internazionale e alle grandi migrazioni quanto dell’impoverimento relativo delle classi medie per una globalizzazione divenuta sinonimo di delocalizzazione e concorrenza sleale.


Ottimismo e pessimismo anzitutto europei, quindi occidentali. Nel trentennio successivo al 1989 il mondo asiatico, ad esempio, ha invece conosciuto complessivamente una fase di espansione, tanto da far dire ad alcuni che siamo entrati nel “secolo cinese”. Quel che è certo è che siamo in una fase avanzata ma non conclusa di ristrutturazione multipolare dell’ordine internazionale e gli scontri di civiltà di cui parlava a metà anni Novanta Samuel P. Huntington sono anche conflitti crescenti dentro ciascuna di esse. Penso tanto alla civiltà europea, per via della massiccia immigrazione di popolazione musulmana, quanto alla stessa civiltà islamica, attraversata da una lunga fase di violentissime guerre civili di religione, assimilabili a quelle vissute dall’Europa tra Cinque e Seicento.


Per il futuro dell’Europa occidentale siamo ad un bivio decisivo. Ripensando a trent’anni fa, a quella stagione di libertà e liberazione, le élite politiche europee devono oggi partire da una realistica constatazione dell’attuale situazione di paralisi, agire con inedito coraggio e apportare importanti correttivi all’Unione europea. Ad oggi pare però prevalere una logica del “si salvi chi può”. L’entusiasmo popolare del 1989 sbiadisce così all’orizzonte. Ma la storia non si ferma e nulla è già scritto.

Danilo Breschi
Professore di Storia delle dottrine politiche
Università degli Studi Internazionali di Roma – UNINT