Se chiudo gli occhi sono in… Tanzania!

#MondayAbroad ci continua a dare occasione di viaggiare attraverso i ricordi dei nostri colleghi.

Oggi cambiamo nuovamente continente: si parte per la Tanzania!

Il racconto di Isabella è talmente carico di ricordi, di emozioni e di pathos, che preferisco fare un passo indietro e lasciare spazio interamente alle sue parole, a tratti allegre, a tratti malinconiche, ma comunque ricche di speranza per il futuro!

Isabella ci sottolinea l’importanza di non dare nulla per scontato (riflessione che, mai come in questo periodo di lockdown, abbiamo imparato a trattare); consiglio, dunque, di accompagnare la lettura con una canzone tipica della nostra tradizione musicale, “Meraviglioso” di Domenico Modugno (per quanto ami anche la versione un po’ più recente dei Negramaro):

…ma come non ti accorgi di quanto il mondo sia meraviglioso?
…perfino il tuo dolore potrà guarire poi, meraviglioso!
Ma guarda intorno a te che doni ti hanno fatto:
ti hanno inventato il mare eh!
Tu dici “non ho niente”, ti sembra niente il sole?
La vita?
L’amore?
Meraviglioso: il bene di una donna, che ama solo te
Meraviglioso!
La luce di un mattino;
L’abbraccio di un amico;
Il viso di un bambino
Meraviglioso…

Zanzibar, Tanzania

6 anni fa (regalo dei 18 anni!)

Il mio desiderio era quello di festeggiare il mio compleanno (il 31 dicembre) felice, al mare. Sono metereopatica, dunque da fine novembre smetto di essere un po’ me stessa e torno a sorridere ad aprile. Il sole mi carica e sento il caldo dentro di me, così come il freddo. Ci sono molte cose che potrei raccontare di quei giorni in Africa e che spero di non vedere più ma ce ne sono poche che, purtroppo (e sottolineo purtroppo), non ho visto più.

Mi auguro di non vedere più una macelleria completamente all’aperto con le mosche sulla carne; di non vedere più piccole zone di terra con una fontana per bere e lavarsi ogni tre capanne, ogni tre famiglie; mi auguro di non vedere più donne incinte che lavorano sfruttate e doloranti (non voglio neanche pensare alle condizioni in cui avranno partorito); mi auguro di non bere più acqua così lassativa e di non lavarmi più con acqua che non sembra pulita. Tuttavia, non posso dire di non consigliare questo viaggio, anzi, dopo 6 anni credo di poterlo definire un MUST.

I Masai (o Maasai) sono un popolo, una tribù, che vive ai confini del Kenya e della Tanzania; sono la cultura, la ricchezza, la gioia che ho portato a casa con me; vivono di piccole cose, di affetto, di amore e di pace interiore. Nel villaggio in cui ho alloggiato c’era Samir, un dipendente, che ha festeggiato il compleanno con me e che mi ha anche fatto un regalo: aveva paura non fosse abbastanza per me, un’italiana entrata in quel villaggio con una Micheal Kors e scarpe firmate. Parlavamo inglese, ma lui capiva la mia lingua e spesso mi rispondeva in italiano. Quando andavo in spiaggia mi accompagnava e mi consigliava di stare tranquilla al sole, che quello non era il sole “nostro”. E aveva ragione: quel sole non bruciava; quel sole l’ho tenuto sulla mia pelle fino a gennaio; quel sole era PURO.

Sono entrata, a 18 anni, in un mondo che non credevo esistesse: senza auto, senza tecnologia, senza invidia, senza odio. C’era dolore e tanta povertà, ma loro hanno imparato a conviverci. Dall’Italia ho portato quaderni penne e pastelli per i bambini e li ho resi felici.

In seguito, ho chiesto a una donna, madre, Masaia, perché non facessero del turismo la loro ricchezza, mi si è stato detto sorridendo “ora ti mostro la nostra ricchezza”: prendendomi per mano, mi ha portato nell’Isola delle tartarughe giganti, piccolissima e abitata da un centinaio di animali dai quali prende il nome, provenienti dalle Seychelles. Da lì, abbiamo cominciato a camminare per le diverse spiaggia e lagune.

È stato solo lì che ho conosciuto il Paradiso.

A quelle persone non mancava il parrucchiere, i negozi firmati, l’ultimo iPhone, l’estetista; i bambini giocavano per strada e non su un iPad.

Ma poi, una volta a casa, mi sono detta: chi sono io per dare un messaggio del genere? A 18 anni ho chiesto a mio padre di portarmi in Tanzania e lui l’ha fatto rendendomi la ragazza più felice del mondo. Eppure quei bambini erano felici con così poco. La mia è stata una richiesta che forse non tutti potevano permettersi di fare o di esaudire. Io sono figlia di questa generazione, di questa realtà.

Ed è questo quello che mi è rimasto di questo viaggio: qualcosa che io non avrò mai.

Ilaria Violi