Illmatic Nas
Per l’ultimo incontro di #urbantalks, proponiamo un ulteriore scorcio di vita tratto da un album iconico del rap mondiale e che ha proiettato il suo interprete nell’olimpo dei rapper più forti di sempre.
Illmatic di Nas, pubblicato nel 1994, è il biglietto da visita del giovane rapper di New York; eppure, già all’epoca si era capito che un album simile non era un semplice ingresso nel panorama musicale americano, bensì un album che avrebbe rappresentato la storia dell’Hip Hop e ne avrebbe definito la discendenza.
Come potevamo chiudere la nostra rubrica se non con un album americano così tanto storico?
Il viaggio di Nas, all’anagrafe Nasir Jones, si svolge tutto nella cornice del quartiere del Queensbridge, uno dei ponti che danno accesso al cuore pulsante della Grande Mela.
Il giovane Nas, all’epoca ventenne, riesce, tramite i suoi racconti, a immortalare la vita nel suo quartiere, esattamente come un fotografo ma con rime e flow, e coglie perfettamente ogni sfumatura, ogni angolo della città, ogni ruga delle persone che racconta.
I temi dominanti dell’album, quindi, si concentrano completamente sulla difficoltà del ghetto urbano dal quale i giovani vogliono evadere: la rivalità tra gang, lo spaccio, la desolazione e la devastazione della povertà urbana, a volte rappresentata tramite dolore e altre tramite vanteria.
A queste tematiche, si associano il dibattito sulla credibilità artistica della musica, soprattutto per quanto riguarda la commercialità del pop all’epoca fortemente criticata, e sul concetto di talento.
Per comprendere al meglio il lessico e il modo di rappresentare la realtà di Nas, ho scelto tre delle tracce più iconiche del disco. Buon viaggio!
Come prima traccia analizziamo The World Is Yours. Sul tappeto musicale magistralmente creato da Pete Rock e ispirato al jazz, Nas riflette sull’effetto che la musica ha su di lui. Lui stesso ammetterà che la traccia gli parla, dice tutto di se stessa senza neanche citare direttamente la musica. Non a caso il rapper canta: “The fiend of hip-hop has got me stuck like a cr**k pipe […] I kick my thoughts alone, get remanded […] I’m deep by sound alone, caved inside, 1,000 miles from home” senza però dimenticarsi di disegnare il quadro quotidiano che lo circonda: “Dwellin’ in the Rotten Apple, you get tackled/Or caught by the devil’s lasso […] There’s no days for broke days when sellin’ smoke pays […] Born alone, die alone, no crew to keep my crown or throne […] Walk the blocks with a bop, checkin’ dames, plus the games people play/Bust the problems of the world today”.
Come seconda traccia prendiamo in analisi N.Y. State of Mind.
In questo brano, prodotto dal leggendario Dj Premier, il rapper tratteggia il sentimento e i pensieri delle persone del Queensbridge all’epoca, creando sempre uno schizzo fedele di quello che vedeva intorno a sé quotidianamente.
Dunque, nel brano Nas racconta: “Now, bullet holes left in my peepholes/I’m suited up with street clothes, hand me a 9 and I’ll defeat foes” ribadendo la difficoltà della vita nel ghetto in più passaggi: “Laughin’ at base-heads, tryna sell some broken amps […] Lead was hittin’ ni**as, one ran, I made him back-flip/Heard a few chicks scream, my arm shook, couldn’t look/Gave another squeeze, heard it click, ‘Yo, my sh*t is stuck!’/Tried to cock it, it wouldn’t shoot, now I’m in danger”.
Il brano scorre attraverso immagini di vita vissuta, difficilissima, ma che sia al tempo che ad oggi molte persone della comunità afroamericana possono sicuramente condividere: “Got younger ni**as pullin’ the triggers, bringin’ fame to their name/And claim some corners, crews without guns are goners/In broad daylight, stick-up kids, they run up on us/.45’s and gauges […] Cops could just arrest me, blamin’ us; we’re held like hostages” in un contesto dove la droga è la legge dominante: “I know this crackhead who said she gotta smoke nice rock/And if it’s good, she’ll bring you customers and measuring pots” e dove si deve sempre tenere gli occhi aperti, perchè: “I never sleep, ‘cause sleep is the cousin of death […] I think of crime when I’m in a New York State of Mind”.
Su un altro beat molto jazz abbiamo Halftime. La canzone, prodotta da Large Professor, è stata il singolo che ha anticipato l’album. Non a caso Nas, che comunque non disdegna il racconto del Queensbridge, in questa traccia si concentra di più su se stesso, riflettendo sul suo talento ed ergendosi al rango di miglior rapper.
Nel testo si legge: “King poetic, too much flavor, I’m major […] ‘Cause I’m a ace when I face the bass […] When I attack, there ain’t a army that could strike back […] I’m an intellectual of rap/I’m a professional and that’s no question”. Nas dice di avercela fatta, di aver sconfitto insicurezze e quel mondo disadattato che lo circonda (“Back in ’83 I was an MC sparkin’/But I was too scared to grab the mics in the parks and/Kick my little raps ‘cause I tought ni**as wouldn’s understand […] I got it goin’ on, even flip a morning song/Every afternoon, I kick half the tune/And in the darkness, I’m heartless like when the NARC’s hit”) ma quella vita non potrà mai abbandonarlo del tutto, portando con sé strascichi e dolori: “‘Cause when it’s my time to go, I wait for God with the .44 […] And yo, go to Hell to the foul cop who shot Garcia […] Ill Will, rest in peace, yo I’m out”.
Tracciando un piccolo riassunto, possiamo notare che il lessico della poetica di Nas è un lessico crudo, pieno zeppo di slang e di riferimenti al proprio orizzonte culturale e sociale. L’ascolto scorre molto velocemente sulle basi dei grandissimi produttori che stanno alle spalle di questo progetto, ma soffermandoci un po’ di più sulle liriche notiamo che il discorso non è così facile da affrontare.
Ma d’altronde, come abbiamo potuto notare nel nostro viaggio in #urbantalks, la musica non si limita mai soltanto a quello che sentiamo uscire dalle casse.
Valerio Cavallaro